Maestro, tanto tuonò che piovve! Lampi, fulmini e saette sulla politica italiana.
Una considerazione come questa, in un momento complicato come quello che attraversiamo, mi fa scattare istintivamente la postura del pompiere. E cioè: vabbè, hai ragione, la situazione è drammatica, ma nel tempo ci è successo anche di peggio, non drammatizziamo, forse non si può dire che c’è sempre il mezzo bicchiere pieno, forse… ma manteniamo comunque la calma e ragioniamo…
Cos’è questo? Il frutto dei peli che crescono sullo stomaco di uno che osserva, analizza e commenta professionalmente la politica italiana da oltre mezzo secolo?
Pur escludendo che tu voglia attribuire, nel mio caso, all’espressione “peli sullo stomaco” un significato che evoca un presunto, inadeguato livello di coscienza e di moralità, tengo a precisare…
Primo, che non ho mai fatto e non faccio “professionalmente” mai niente nella vita, non nel senso che non cerco di farlo con il massimo di competenza e serietà, ma nel senso che non lo faccio con la ossessiva continuità necessaria per la crescita del pelo, preferendo per curiosità (e per completezza di conoscenza e di capacità di descrizione della complessità) passare continuamente da un registro all’altro di approccio alla realtà…
Secondo, che mi ostino a fare il giornalista e, per la politica interna italiana, il cronista e l’osservatore, cercando di evitare le pretese dell’analista e comunque rinunciando alla visibilità oggi massima (e distorsiva) del commentatore/opinionista che ha quasi totalmente annullato la tradizionale funzione del giornalista, di cui pure si avrebbe molto bisogno in un’epoca pervasivamente mediatica come l’attuale…
Terzo -e qui cominciamo ad avvicinarci alla sostanza della questione che tu proponi con la tua iniziale considerazione- la politica italiana, così come ci è consentito di conoscerla, ci viene quotidianamente trasmessa, anche modellata e a volte manipolata da un ceto giornalistico (cronisti, analisti, opinionisti, retroscenisti, intervistatori, telegiornalisti e conduttori di talkshow) che quasi certamente ha un buon pelo sullo stomaco ma che si comporta come se non ne avesse. I “moderni” giornalisti politici -facendo proprio un difetto del giornalismo “moderno” in genere- tendono infatti ad enfatizzare, persino a storicizzare il più piccolo raffreddore della politica e il più insignificante aspetto dei discorsi, degli atti e della vita dei politici, forse cercando istintivamente di dare un senso alla propria professione e al proprio ruolo, ridotti a formati ancillari e ruffiani. Ma così fanno una marmellata senza soluzione di continuità dell’alto e del basso, del serio e del faceto, del banale e dei lampi, fulmini e saette ai quali giustamente fai riferimento.
Parliamo allora di quanto di non banale ci sta succedendo.
Il contesto è la complessiva debolezza, il progressivo degrado e la mediocrizzazione (non solo etica e morale) della classe politica e delle nostre istituzioni. Un contesto nato nell’unica data, nello spartiacque delle nostre vicende nazionali che io tendo a enfatizzare e storicizzare: la fine del processo di democratizzazione e modernizzazione intervenuta con l’avvento degli anni Ottanta. Lo so, lo ripeto sempre, ma per me tutto quello che continua a succederci ha purtroppo robuste radici quarantennali. È in questo contesto che il 13 febbraio 2021 il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella -trasformando in una qualche maniera in opportunità l’incapacità del Parlamento (vale a dire della debole, degradata e mediocre classe politica italiana) di dare al Paese un governo e il pericolo della interruzione della legislatura- pensò e riuscì di dare l’incarico a Mario Draghi. Un tecnico, un grande tecnico, una grande personalità a livello internazionale, che ha affrontato da par suo in particolare la pandemia, le sue conseguenze economiche e i rapporti con l’Ue. Un anno dopo, arrivato a scadenza il settennato di Mattarella, probabilmente anche sulla spinta della logica e di una qualche intesa fra i due, Draghi si candidò a sostituirlo. Probabilmente sarebbe stata un’ottima cosa per l’Italia e per la sua reputazione internazionale, probabilmente fu precipitoso, probabilmente fu inopportuno, ma i partiti di fatto la videro (e la respinsero) come la pretesa di un’ulteriore fase di “commissariamento” della politica -questa volta settennale e quirinalizia- da parte di un grande tecnico legato alla finanza internazionale, agli Stati Uniti e ai centri di potere europei. Il 29 gennaio 2022 fu rieletto, per un secondo settennato, Mattarella. Un mese dopo, il 24 febbraio, scoppiò una nuova, enorme emergenza -l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia- che Draghi ha affrontato con energia e gestito con autorità…
E arriviamo al 21 luglio, con le dimissioni di Draghi. Il giorno prima, tre partiti del suo governo di unità nazionale -Lega, Forza Italia e M5s- non hanno votato una mozione di fiducia al governo.
Sì, Draghi ci ha messo del suo. Di mancanza di esperienza nelle pratiche politico-parlamentari e pure di superbia…
Posso dire che le parole più chiare a questo proposito le ha dette Gianluigi Paragone? Per l’ex giornalista leghista, ex cinquestelle e ora fondatore di Italexit, Mario Draghi: “…non ha recuperato il senso di un’altra parola simbolica, una parola greca, hybris. Che significa tracotanza, superbia. La superbia con cui ha affrontato una crisi di governo dai tempi straordinariamente dilatati; non una road map, non un confronto con le forze che lo avevano sostenuto in parlamento. Si era fatto forte di una specie di acclamazione popolare, più frutto di una visione mistica che della realtà… Ma il vero endorsement era già arrivato da coloro che lì l’avevano messo: governi di altri Paesi, finanza internazionale e ambienti terzi. Insomma gli amichetti suoi. Quella hybris che lo acceca l’ha poi dimostrata anche alla fine, con l’ennesimo voto di fiducia sulla risoluzione Casini. La sua replica è stata sbrigativa e superba, perché quando non si sa tessere il delicato filo della dialettica parlamentare non resta che alzare la voce e rivendicare gradi ormai sbiaditi. E infine il merito del suo discorso. Un capolavoro di tracotanza…”. Che ne dici?
Sì, Draghi ci ha messo del suo. Con un po’ più di pazienza, di astuzia e di capacità di sopportazione -avendo peraltro ben presente l’ostilità partitica ma anche personale che gli aveva già impedito di essere eletto al Quirinale- egli forse oggi sarebbe ancora presidente del Consiglio e l’Italia non sarebbe alla vigilia di elezioni politiche anticipate, con una campagna elettorale in piena estate, senza un governo nel pieno delle sue funzioni, con grandi emergenze e pesanti scadenze di ogni tipo (sanitarie, economico-sociali, finanziarie, di rapporti con la Ue, di gestione del Pnrr, legate alle conseguenze della guerra scatenata dalla Russia in Ucraina, ecc. ecc.). Lui avrebbe forse potuto difendersi dal concorso di ostilità prodotta dalla smania di potere e/o dallo spirito vendicativo e persino dall’invidia che, in alcuni personaggi, hanno avuto la meglio sullo spirito di lealtà che dovrebbe caratterizzare i rapporti politici e soprattutto sul senso di responsabilità e sull’attaccamento agli interessi del Paese.
Un vero e proprio Draghicidio. Intanto Però si assiste invece a un rimpallo delle responsabilità, con Conte (“Siamo stati messi alla porta”), Salvini e Berlusconi che arrivano addirittura a dare tutta la colpa della caduta di Draghi a Draghi stesso, che avrebbe tradito sé stesso e l’Italia.
A questo proposito bisogna essere estremamente chiari. Quei tre personaggi, leader di tre componenti della maggioranza di solidarietà nazionale -tutti e tre, per ragioni diverse e in diversa misura, in uno snodo delicato del loro percorso politico e personale- hanno meschinamente, scientemente, lucidamente e perversamente negato la fiducia al governo Draghi, causandone la caduta. Hanno privato di un governo stabile il Paese -in una fase assai problematica, delicata e complessa- esponendolo a danni, rischi e pericoli che potrebbero rilevarsi fatali per la nostra comunità, per la nostra economia e per la nostra reputazione. Con la cinica certezza di ricavarne qualche vantaggio personale (ma chissà se, in base al principio dell’eterogenesi dei fini, questa certezza si riveli invece un’illusione e si trasformi in un loro ennesimo e magari definitivo passo falso).
Dimmi di Giuseppe Conte…
Ha dato il meglio di sé durante la presidenza del governo con il Pd, ma prima (presidenza del governo con la Lega) e dopo (come leader del Movimento) è stato un disastro. Si è dimostrato totalmente incapace di gestire un apparato politico-organizzativo, determinandone il progressivo sfarinamento. Con quest’ultima mossa, ha completato il percorso della propria inaffidabilità. Anche il Pd inevitabilmente ne ha preso le distanze. Lo stesso Grillo sembra osservarlo sornionamente, pronto a scaricarlo. Credo che non abbia più un futuro nella politica italiana. Continuerà a far danni a sé, al Movimento e al Paese fino al momento in cui uscirà di scena. Ha fatto cadere Draghi -a parte l’eventuale rancore e l’invidia per colui che ritiene gli abbia soffiato il posto a Palazzo Chigi- perché intravede, per il dopo-elezioni, un Movimento più piccolo, con un gruppo di comando composto da persone a lui fedeli e in definitiva più gestibile. Un’illusione.
Dimmi di Matteo Salvini…
È in bilico. Continua a farla franca nella Lega, per il frenetico avvicendarsi di urgenze e scadenze esterne e grazie al suo frenetico e superficiale approccio quotidiano alla politica fatto di populismo, di slogan e di parole a vanvera. Così è riuscito sinora a sottrarsi al chiarimento con l’ala governativa e settentrionalista della Lega. Ha fatto cadere Draghi per andare a nuove elezioni e tentare di entrare a Palazzo Chigi da capo del governo. Ma Meloni dovrebbe prendere più voti di lui e quindi avrebbe diritto di fare lei la premier. Ma non è detto che inevitabilmente debba succedere questo. La prima idea di Salvini è stata quella di associarsi a Berlusconi e, con lui, prendere più voti di Meloni. Ma questa non ci è cascata. Più interessante, ai suoi fini, la recente ipotesi di candidatura a premier di AntonioTajani, da parte del Ppe e di Forza Italia, che porta acqua al mulino della tesi per cui la candidatura a premier non debba fare necessariamente riferimento al maggior numero di voti raccolti alle elezioni. Staremo a vedere.
E Berlusconi?
Appare credibile, a questo punto, che abbia stretto un patto con Salvini: lui appoggia in tutti i modi possibili il leghista per farlo sedere sulla prima poltrona di Palazzo Chigi, a fronte dell’impegno del leghista di farlo eleggere alla presidenza del Senato, seconda carica dello Stato. Credo che difficilmente questo possa avverarsi -per ragioni di dignità istituzionale e di opportunità politica- ma tant’è. Berlusconi si è accodato a Conte e Salvini e ha fatto cadere Draghi perché indotto dalla promessa di Salvini di portarlo al vertice di Palazzo Madama, perché convinto di essere ancora un cavallo di razza (convinzione, anche questa incoraggiata da Salvini, che gli ha già fatto fare una figuraccia quando si è dovuto ritirare dalla corsa al Quirinale) e perché consapevole del tempo che passa. A 85 anni ritiene di farcela ancora, nonostante le impietose imitazioni che ne fa Crozza, ma comprende anche lui che difficilmente gli sarebbe consentita una nuova opportunità istituzionale a novant’anni…
Pensi che la sinistra o il fronte progressista, chiamiamolo come vogliamo, debba proprio rassegnarsi a perdere queste elezioni?
Per rispondere adeguatamente dovremmo rifare la storia d’Italia almeno dal dopoguerra, dal ruolo del Vaticano, dalla divisione del mondo in due blocchi, dai motivi per cui in Italia c’era il più grosso Partico Comunista d’Occidente…
No, no, Maestro. Manteniamoci basso. La sinistra è condannata a perdere stavolta?
Può succedere di tutto. Abbiamo visto che qualche problema ce l’ha anche la destra: prima una sola aspirante premier, poi due, adesso tre. Nel pollaio della sinistra ci sono troppi galli o pretesi galli, e pochissimi federatori. Il solo Letta non basta e si sbaglierebbe se si tornasse all’idea del Pd veltroniano onnicomprensivo. Accanto al Pd ci vorrebbero altri due centri di aggregazione, non uno in più e non uno in meno: uno a sinistra e uno verso il centro, credibili, capaci di attirare rispettivamente l’elettorato radicale e quello moderato. Speriamo, Calenda volendo…
Ma il voto del 25 settembre risolverà tutti i nostri problemi?
Tutti i nostri problemiii? Vuoi sempre scherzare tu. Se ce ne risolvesse un paio, già potremmo considerarci soddisfatti. Se non ce ne risolvesse nessuno e potessimo ancora ricorrere di nuovo a San Mario Draghi, mi accontenterei. E sai perché? Perché l’esito del voto del 25 settembre -non voglia Dio!- potrebbe non solo non risolvere alcun problema, ma potrebbe aggiungercene di altri! Pure più gravosi di quelli attuali!
Ti riferisci agli ulteriori problemi che i Draghicidi potrebbero creare alla sventurata Italia?
Non solo i tre Draghicidi. Ma anche qualcun altro o qualcun’altra.
BEPPE LOPEZ, classe 1947, è nato a Bari, nel quartiere Libertà. Da giornalista, direttore di giornali e di agenzia e saggista, si è occupato per oltre mezzo secolo di politica interna, di giornali locali e di analisi e critica dell’informazione. Ha collaborato con le più importanti testate nazionali. Ha partecipato come cronista politico alla fondazione del quotidiano la Repubblica. Ha fondato e diretto quotidiani e riviste. Ha diretto la Quotidiani Associati. Ha pubblicato racconti storici e saggi sul giornalismo, ottenendo uno straordinario successo editoriale in particolare con La casta dei giornali (Stampa Alternativa 2007). Di notevole rilievo per la cultura e la musica popolare italiana la sua biografia di Matteo Salvatore, L’ultimo cantastorie (Aliberti 2018).
Ha esordito come narratore con Capatosta (Mondadori 2000), divenuto subito un importante caso letterario, proseguendo con Mascherata reale (Besa 2004), La scordanza (Marsilio 2008) e La Bestia! (Manni 2015).
Sono appena arrivati in libreria il suo ultimo romanzo, Capibranco e la trilogia Quartiere Libertà, contenente i suoi tre romanzi ambientati in questo quartiere popolare di Bari (Capatosta, La scordanza e Capibranco), che raccontano, con un vivace “idioletto” conformato su italiano e materiale dialettale barese, un secolo di vita nazionale e un quartiere simbolico dell’intera umanità.
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