Maestro, com’è andata poi con Massimo D’Alema?
Con D’Alemaaa? A che proposito?
A proposito di affari e lobby, dopo che qualcuno aveva fatto il nome dell’ex leader della sinistra ed ex premier, a margine, molto a margine del Qatargate, per la raffineria di petrolio di Priolo messa in crisi dai rapporti con i russi, per l’appunto, com’è andata a finire dopo il tuo post sui social?
Guarda che con D’Alema non ho mai avuto rapporti tali per cui poi ci si dovesse/potesse chiarire su qualcosa. C’è stata la stagione (anni Settanta) in cui io facevo il cronista politico di Repubblica e lui il segretario della Federazione Giovanile Comunista. Poi, in Puglia, nei primi anni Ottanta, io dirigevo il Quotidiano di Lecce, e lui faceva il segretario regionale del Pci (molto contento di un giornale che molti temevano dovesse fare da agit-prop per il Psi e invece fu molto amato da tutti, meno che dal Psi, allora craxiano). Litigammo in una sola occasione sul caso della liberazione del giudice D’Urso rapito dalle Br: lui si aspettava che il giornale tenesse una linea ortodossamente vicina a quella del Pci-Scalfari (non pubblicare nulla delle Br), mentre noi ci tenemmo distinti sia da questa sia soprattutto da quella socialista (cedere al ricatto Br pubblicando i documenti delle Br). Noi, come giornale, non pubblicammo nulla delle Br, nemmeno una riga. Lo fecero invece i Magistrati Democratici, per scopi umanitari, con una pagina autogestita sul nostro giornale (consentita come pratica quotidiana dal nostro giornale, in totale e insindacabile autonomia, a favore di partiti e associazioni tenuti ai margini del dibattito politico, economico, ecc.). Apriti cielo. Si spaccò quella nobile associazione. Ne parlarono i telegiornali nazionali. Lui mi telefonò, rimproverandomi maldestramente addirittura una linea “craxiana”. Si ebbe la risposta che meritava un dirigente politico, che, da buon comunista trinariciuto, non distingueva. O con me o contro di me. D’Alema, quando fui fatto fuori dalla direzione del Quotidiano di Lecce, si espose a spada tratta in mio favore e della mia indipendenza. Salvo poi, di lì a qualche anno, a mettere in lista per la sinistra a Brindisi proprio l’uomo al quale gli spodestatori avevano affidato il giornale riducendolo a organo del gruppo di potere e sottogoverno socialista. Fu quella l’unica volta in cui scrissi a D’Alema, confessandogli di avere scoperto che veramente i comunisti erano trinariciuti… Ma ovviamente non nel senso della “acritica credulità e sudditanza alle direttive del partito” attribuita agli iscritti al Partito Comunista dallo scrittore di destra Giovannino Guareschi, ma nel senso di un dirigente di partito dotato di opportunismo, cinismo e trasformismo. In realtà gliene dicevo quattro, ero proprio arrabbiato e deluso. Se ritrovo quella lettera, giuro che la pubblico su ilikepuglia. Ma da allora e sempre più nel corso degli anni e degli avvenimenti -durante i quali ci siamo persi completamente di vista- mi sono convinto che D’Alema sia il prototipo perfettamente togliattiano del dirigente comunista che non ha preso nulla da Berlinguer, considerato un ingenuo idealista, e fa prevalere sempre e comunque, in ogni occasione, il Calcolo. Su tutto, ma proprio su tutto. Con in più il vizio del protagonismo assoluto. Il bisogno incancellabile di stare sempre nel gioco…
Sì, va bene, ma torniamo a noi, a oggi, al fatto che qualcuno abbia fatto il suo nome anche per il Qatargate.
Lui l’aveva subito chiarito: “Una cordata di investitori internazionali, tra cui è presente un imprenditore qatariota, si è rivolta anche a me per l’acquisizione della raffineria. A loro ho dato un consiglio: vi interessa? Bene, come prima cosa andate a parlare col governo”. Ma sembra proprio che i giornali italiani non vedano l’ora di poter coinvolgere in una qualche maniera il suo nome e quello di qualche “dalemiano” in affari dai contorni poco chiari. Così come fanno significativamente da tempo i non-simpatizzanti dalemiani di Striscia la notizia nelle News: “Non solo armi: tutti i moltissimi affari di D’Alema, gasdotti, porti, ospedali, strade (etc. etc.) dal Messico al Medio Oriente” (11 aprile 2022).
Come in quell’altro caso dello scorso giugno, così sintetizzato da Repubblica: “Utilizzo di credenziali false” per proporsi come “negoziatori nella compravendita di armamenti alle forze armate colombiane del valore di 4 miliardi di euro con Fincantieri e Leonardo. Per il tramite dell’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema. La vendita, sfumata, di navi e aerei militari italiani alla Colombia finisce in tribunale”…
Anche allora il Massimo chiarì, ammettendo però: “Non ho controllato il curriculum del mio interlocutore. Mi hanno detto che era un senatore. Non c’è dubbio che in questa vicenda ho peccato di mancanza di cautela. Prestandosi però alle critiche dei suoi non-amici del Fatto Quotidiano: “Proprio in ragione di questo trentennale presidio delle stanze che contano (dalla presidenza del Consiglio al Copasir), stupisce l’ingenuità con cui l’ex leader del Pd si sarebbe fatto ingannare nell’ambito di un’operazione per la vendita di armi alla Colombia (sommergibili, navi e aerei prodotti dalle italiane Leonardo e Fincantieri)”.
Ci si chiede: ma perché ogni tanto sbuca il suo nome per cose non propriamente commendevoli, in particolare per un politico del suo livello e del suo prestigio?
Primo, secondo me, per il suo narcisismo: non ci sta a essere messo da parte come un vecchio arnese, come uno “scrittore” (caso Veltroni). Gli piace fare il protagonista. E per farlo si è scelto o comunque si è ritrovato fra le mani il mestiere dell’ex-potente Massimo D’Alema. Abilissimo, intelligente, persino luciferino e ricco di conoscenze e relazioni, nazionali e internazionali. Ed è stato sempre circondato da “dalemiani a vita”, adoratori di livello, manager, banchieri, imprenditori dinamici e assai pragmatici…
E veniamo qui alla ragione della mia domanda iniziale, ovvero il tuo post sulla dichiarazione di D’Alema: “Non sono né affarista né lobbista. Sono un consulente”. Con l’aggiunta (la tua): “Ora, però, D’Alema ti fermi un po’ e ci spieghi gli esatti confini fra queste tre attività e quanto esse non si avvantaggino (poco virtuosamente) della tua attività politica passata e delle tue relazioni politiche passate e presenti”.
E che debbo dire? Era una formula retorica. È chiaro che D’Alema non è il tipo che mi chiama per spiegarmi, dal suo punto di vista, quei confini e quelle differenze tecnico-professionali, e sostenere la loro neutralità rispetto alla sua attività e caratura politica. Semmai avrebbe dovuto essere il giornalista cui rilasciava quell’affermazione -per la storia, Tomaso Labate, Corriere della Sera- a insistere per chiedere lumi sulle sostanziali, profonde differenze tra affarista, lobbista e consulente, specie in riferimento ad un autorevole ex-politico o più esattamente ad un totus politicus in servizio permanente effettivo, che era già tale da bambino. A nove anni, da Pioniere del Pci, scrisse da solo e recitò con tale efficacia un discorso a un congresso del Pci, da far dire a Togliatti: “Ma quello non è un bambino, quello è un nano”. Totus politicus D’Alema lo rimarrà a vita, come lo è oggi da presidente della Fondazione Italianieuropei e persino da autorevole, libero e privato “consulente” al servizio della patria. Certo, affarista è chi negli affari cerca il guadagno come fine a sé stesso. Ma lobbista è chi fa parte di una lobby, il cui obiettivo è l’emanazione di provvedimenti normativi, in proprio favore o dei loro clienti. E consulente è il professionista a cui si ricorre per avere consiglio o chiarimenti su materia inerente la sua professione, l’esperto che assiste tecnicamente una parte privata in una qualche causa o affare, ricavandone la giusta mercede.
Certo, qualche distinzione c’è.
E ci mancherebbe. Ma il problema è che alla fine fa una certa tristezza, fa molta tristezza vedere uno come D’Alema alle prese con queste distinzioni (perlopiù arrampicamenti sugli specchi) e coinvolto da certi personaggi. Era veramente il migliore. Avrebbe potuto fare effettivamente molto perché l’Italia non finisse com’è finita. È stato invece – duole dirlo – il protagonista della generazione ex-comunista che, insieme a Craxi, ha distrutto la sinistra italiana.
E che deve fare? Il testimone inascoltato come Formica o lo scrittore-regista-giornalista-documentarista come Veltroni?
Facesse il D’Alema. Scrivesse e parlasse di politica, se gli va ancora. Ma che ci guadagna a stare in mezzo ad affaristi, lobbisti e a trafficanti, come consulente o altro, obbligandosi e obbligandoci a distinguere metodi e funzioni, e a far finta che a muovere certi affari e certi personaggi alla fine non sia sempre il danaro. Tra l’altro, dopo una vita molto operosa, non credo che D’Alema, classe 1949, abbia ancora bisogno di guadagnare qualcosa per poter dare serenamente il proprio contributo alla vita culturale del Paese.
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