Allora?
Allora che?
Maestro, non faccia lo gnorri. Vogliamo cominciare a parlare del nuovo governo di destra-centro del Paese, guidato per la prima volta da una donna ed insediatosi il 22 ottobre scorso? Il nostro ultimo dialogo è del 10 ottobre. Era così titolato: CONSERVATRICE O REAZIONARIA? GIORGIA MELONI ORA DEVE DECIDERE COSA VUOLE FARE DA GRANDE.
E allora?
Dopo quasi un mese di attività e polemiche, anche molto aspre, si può capire se la presidente del Consiglio abbia preso la strada della conservazione o della reazione?
L’ho detto e lo ripeto: la ragazza – ci venga consentito questo gentile riferimento anagrafico – è una politica di professione ma è tosta. Sa usare tattica e strategia, il registro dell’appeasement e le impuntature. Fa l’istituzionale, perché gli serve e gli servirà ancora per accreditarsi specie in Europa, ma è chiaro che non vuole e non potrà mai dimenticare il suo sistema di valori (o disvalori, a seconda dei punti di vista). Meloni deve fare i conti con la mancanza di una vera e propria classe dirigente di governo nel suo partito, ma anche in quelli dei partiti alleati significativamente guidati da un Berlusconi ormai fuori registro e un Salvini fuori registro in servizio permanente effettivo. E deve fare i conti, naturalmente, pure con la propria inesperienza in materia di linguaggi, procedure, convenzioni e modi nei rapporti istituzionali e internazionali. Solo col tempo si capirà, per esempio, se l’incidente con Macron e la Francia, sull’immigrazione, sia stato determinato solo dall’inesperienza e da equivoci o anche dall’essere Meloni caparbiamente contraria e strutturalmente inadatta ai livelli di indeterminatezza e pure di ambiguità che spesso vanno praticati in materia di accordi, intese e compromessi. Ma ci sono anche segnali, piccoli e grandi, inequivocabili. Ha collocato una figura molto marchiata come La Russa a seconda carica dello Stato. Ha inserito direttamente nel governo suo cognato Francesco Lollobrigida, nell’identitaria collocazione di ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare. Alla Difesa non si è risparmiata di mettere Guido Crosetto, suo compagno di avventura politica ma anche n.1 dei lobbisti italiani in materia di armi. Ha particolarmente insistito, persino sul piano istituzionale, sull’uso del maschile nel definire sé stessa e nel pretendere che la si definisca “il” presidente del Consiglio. Ha varato un primo decreto, l’anti-rave, con evidenti, marchiani retropensieri autoritari ed errori tecnici, tollerando invece generosamente la manifestazione fascista a Predappio. Ha evitato di ricordare, il 28 ottobre, la ricorrenza della sciagurata Marcia su Roma. Tutti questi segnali appartengono ai valori/disvalori che la presidente del Consiglio non ha alcuna intenzione di dismettere e probabilmente alcuna capacità di rielaborare, forse anche ad una sua consapevole e avventata estraneità ad una cultura diciamo così “moderna” e alla inadeguata squadra di governo da cui è circondata.
Insomma non stiamo messi proprio bene…
Certo, siamo passati da una democrazia parlamentare incapace di esprimere un governo e che si affidava per l’ennesima volta a un “tecnico”, alla piena espressione politica di un’assemblea democraticamente eletta (anche se con norme elettorali indecenti). Ma, con tutte le riserve che si possono avere su un grande tecnico come Draghi e sui suoi legami con l’alta finanza, di fatto passiamo da un presidente della statura di Draghi a una presidente come Meloni. La differenza, in peggio, si vede a occhio nudo – anche da Bruxelles, Strasburgo, Lussemburgo e Washington – con tutto il rispetto per la giovane età, il sesso femminile e la tostaggine politica di Meloni.
Non è che questa severità di giudizio deriva solo da una militanza di sinistra che si sente frustrata e vinta?
No, il problema non è questo. Nelle ultime elezioni, non ha vinto il destra-centro ma ha solo perso, anzi si è semplicemente suicidato il fronte progressista, all’interno del quale la responsabilità primaria non può non essere attribuita a un Pd, che da tempo ha perduto di vista quello che dovrebbe essere il suo obiettivo: la riduzione delle disuguaglianze, la giustizia sociale, la lotta in favore degli ultimi. Il Pd è visto ormai, giustamente, come il tutore dell’establishment, delle caste privilegiate, dei salotti in cui ci si scambiano favori e appoggi.
Allora perché essere così severi con Meloni?
Mai sentito parlare di flat-tax? Di condoni e “pace fiscale? La destra populista non è necessariamente destra popolare. Ovunque la destra usa un linguaggio demagogico e propagandistico per acquisire consensi popolari ma poi usa il potere per servire i grandi interessi economici. È nella sua storia, nella sua cultura e nelle sue finalità. Nel nostro caso, c’è di peggio: l’isolazionismo in cui la destra sovranista condannerebbe l’Italia, in particolare rispetto all’Europa e alla Ue, se riuscisse a proseguire sulla sua strada, da sempre da essa stessa apertamente annunciata e sostenuta.
Alziamo il tiro, allora. Che sta succedendo in Italia?
La vittoria di Meloni e lo stesso auto-annullamento della sinistra sono epifenomeni…
Ci dice la Treccani che l’epifenòmeno è “manifestazione collaterale, aspetto secondario di un fenomeno e che si ritiene originato da quest’ultimo”. Quale sarebbe questo fenomeno originario e originante?
Che l’Italia è ormai stabilmente un paese dove vince chi aveva torto.
In che senso?
Partiamo un po’ da lontano. Rispetto alla grande tradizione liberal-democratica e liberal-socialista italiana, hanno vinto la Dc e il Pci, facendo tabula rasa di tutto il resto. Che hanno a che fare, tutti quelli che sono venuti dopo, con i fratelli Rosselli, Giustizia e Libertà, il Partito d’Azione, Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, ecc. ecc.? E, più recentemente, nella stessa confluenza fra ex-democristiani ed ex- comunisti, chi ha vinto? Forse gli eredi di Moro e Berlinguer? O invece quelli di Andreotti/Forlani e Togliatti? E chi c’è adesso a capo del governo? Una donna cresciuta nel mito della Resistenza e del tentativo delle forze democratiche di dare un assetto democratico a questo Paese (sistema sanitario nazionale, estensione dell’obbligo scolastico, Statuto dei lavoratori, ecc. ecc.) e impegnata nella militanza politica per la costruzione della democrazia compiuta in Italia, o invece una donna politica nata in un ambiente imbevuto del mito del fascismo e delle ragioni della militanza neo-fascista, fra i ritratti di Mussolini e di Almirante, fra neo-mussoliniani e post-almirantiani? E chi è la prima presidente del Consiglio donna? Una femminista protagonista della rivoluzione anti-autoritaria del Sessantotto e comunque cresciuta con quel mito e quei valori, o una persona che viene da un fronte militante sempre in contrasto con chi si batteva per la progressiva democratizzazione/modernizzazione del Paese? Una ragazza che piangeva leggendo le lettere dei condannati a morte della Resistenza, ponendole inevitabilmente alla base del proprio impegno sociale e politico, o una ragazza che si emozionava leggendo le fantastiche imprese di Atreju e del Signore degli Anelli, al punto da farne parametri politici?
Quindi sarebbe stato giusto che, al posto suo, ci fosse arrivata una donna del Pd?
Magari Marianna Madia o Beatrice Lorenzin? Ma per cortesia. Anche il Pd è in mano a quelli che avevano torto.
Maestro, perché la sua analisi non sembri segnata da personale mancanza di considerazione per Meloni o da un pessimismo palingenetico sulla politica italiana, ci fa qualche esempio di “Italia dove vince chi aveva torto” anche in settori a lei più vicini, cioè il giornalismo e la narrativa?
Eugenio Scalfari, con cui ho lavorato e che considero il più grande giornalista italiano contemporaneo, ha stravinto: ha creato dal nulla un giornale arrivato a vendere anche ottocentomila copie (la Repubblica), modernizzando l’intero settore giornalistico ed editoriale italiano. Ma aveva torto: non era di quello che aveva bisogno l’Italia, di un giornale-mostro che faceva di tutto (giornalismo di qualità e popolare, giornale nazionale e, con gli inserti, giornale locale), che ha sdoganato il vecchio giornalismo italiano imperniato sulle opinioni e gli editoriali, che ha distrutto – insieme al Corriere della Sera, subito scalfarizzàtosi – il vecchio sistema di informazione locale, abusando della propria posizione dominante sul mercato. Guàrdati una rassegna stampa televisiva e vedrai che oggi abbiamo solo quotidiani di opinione, di parte e di partito preso, e pochissimi e negletti giornali di informazione.
E nella narrativa?
Qui hanno per caso vinto coloro che, percorrendo tenacemente la strada tracciata dai giganti della letteratura, hanno cercato di continuare a fare della narrativa letteraria? No, essi sono ai margini dell’editoria, delle classifiche dei libri più venduti, delle interviste televisive e perlopiù anche dai cataloghi editoriali. Dove sono gli eredi di Moravia e Pasolini? Di Natalia Ginzburg ed Elsa Morante? La scena oggi è tutta loro: di coloro che si sono allegramente e proficuamente dedicati alla scrittura di gialli, spy-stories, thriller, noir e avventure e amorazzi di commissari di polizia e sostitute procuratrici, divenendo protagonisti del mercato, della comunicazione, delle rassegne letterarie, dei premi letterari, delle classifiche di vendita e delle fiction.
Quindi non ce l’ha personalmente con Meloni?
Certo, non è colpa sua l’essere arrivata a Palazzo Chigi, semmai è un suo merito, un grande merito personale. Il fatto è che, sul piano generale, parliamo di un epifenomeno. Di una manifestazione accessoria, collaterale di un fenomeno preciso: questo è un Paese dove a vincere – almeno da un quarantennio – sono coloro che avevano torto.
BEPPE LOPEZ, classe 1947, è nato a Bari, nel quartiere Libertà. Da giornalista, direttore di giornali e di agenzia e saggista, si è occupato per oltre mezzo secolo di politica interna, di giornali locali e di analisi e critica dell’informazione. Ha collaborato con le più importanti testate nazionali. Ha partecipato come cronista politico alla fondazione del quotidiano la Repubblica. Ha fondato e diretto quotidiani e riviste. Ha diretto la Quotidiani Associati. Ha pubblicato racconti storici e saggi sul giornalismo, ottenendo uno straordinario successo editoriale in particolare con La casta dei giornali (Stampa Alternativa 2007). Di notevole rilievo per la cultura e la musica popolare italiana la sua biografia di Matteo Salvatore, L’ultimo cantastorie (Aliberti 2018).
Ha esordito come narratore con Capatosta (Mondadori 2000), divenuto subito un importante caso letterario, proseguendo con Mascherata reale (Besa 2004), La scordanza (Marsilio 2008) e La Bestia! (Manni 2015).
Sono appena arrivati in libreria il suo ultimo romanzo, Capibranco e la trilogia Quartiere Libertà, contenente i suoi tre romanzi ambientati in questo quartiere popolare di Bari (Capatosta, La scordanza e Capibranco), che raccontano, con un vivace “idioletto” conformato su italiano e materiale dialettale barese, un secolo di vita nazionale e un quartiere simbolico dell’intera umanità.
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