Oggi è l’anniversario della Strage di Capaci. Non possiamo ignorare questa data, né quella di Via D’Amelio. Non trovi?
Certo che potremmo ignorarlo. Nessuno ci obbliga. Ma noi sì che vogliamo ricordare, in questo anniversario a cifra tonda, la lezione di quel terribile evento e dello straordinario personaggio che era Giovanni Falcone. Quel 23 maggio di trent’anni fa è da segnare in rosso nel calendario della storia e della vita nazionale.
Perché tieni a sottolineare che si tratta di un anniversario a cifra tonda?
Scusami, questo è un mio vezzo professionale, ma credo che aiuti a riflettere su un vezzo collettivo o meglio del sistema mediatico. Da direttore ho sempre evitato di proporre ai lettori articoli e servizi, in un determinato giorno, ogni anno, su un fatto avvenuto nello stesso giorno di qualche anno prima. Secondo me è un sistema che declassa ogni evento a mera scadenza automatica, retorica e magari strumentale: siccome ogni giorno di ogni mese è avvenuto nel mondo qualcosa di più o meno rilevante (fatti di cronaca di ogni colore, guerre, stragi, nascite e morti, imprese, scoperte, ecc. ecc.), scegli tu ogni tanto quello che ti serve di più in quanto operatore mediatico. Perciò ritengo che sia più corretto e decoroso, se proprio si vuole, riferirsi al primo anniversario annuale e poi ai decennali, magari con l’aggiunta dei 25 anni, un quarto di secolo esatto. Altrimenti l’evento – che scegli tu fra i tanti, ogni giorno – sembra che serva a riempire uno spazio, a collegarlo forzosamente a fatti di cronaca attuale o ad altro. Non ti sarà sfuggito che in questi giorni, in occasione del 23° anniversario dell’assassinio di Massimo D’Antona, giurista, docente e consulente del ministero del Lavoro, da parte delle cosiddette Nuove Brigate Rosse, si è arrivati ad abbinare questo tragico evento addirittura alla preparazione di un piatto di pasta…
Confesso: mi era sfuggito…
Confesso che era sfuggito anche a me. Ma non a un sito specializzato come professionereporter.eu. Lo sfondone lo ha commesso nientemeno che un sito professionale come repubblica.it, dove hanno avuto l’idea di abbinare, per ogni data, una notizia a un piatto. “Venerdì 20 maggio è venuto fuori un abbinamento da brividi: Titolo: Pasta co’ meli per celebrare le api. Testo: Il fatto di oggi a Roma: la mattina del 20 maggio 1999 Massimo D’Antona viene freddato in strada da due killer. Era un giurista e docente universitario, consulente del ministro del Lavoro Antonio Bassolino. L’omicidio è rivendicato dalle Br. E poi: Cosa serve per quattro persone? 200 g mandorle sgusciate (con la pellicina interna), 100 g mollica di pane raffermo macinata a grana grossa, 200 g miele di zagara, 320 g spaghetti, due cucchiaini di cannella, scorza di una arancia non trattata, sale qb. Cosa fare? Preparare il condimento pestando le mandorle in un mortaio senza polverizzarle. In una padella antiaderente tostare la mollica di pane e le briciole di mandorle girando di continuo con un cucchiaio di legno per evitare che brucino. Dopo molte ore, quando lo screenshot ha cominciato a girare, la notizia sulla morte di D’Antona è stata tolta dal web”. In compenso hanno lasciato le indicazioni per la preparazione della pasta co’ meli, che non vedo l’ora di assaggiare…
La strage di Capaci è avvenuta esattamente trent’anni fa. Un tempo congruo – di inchieste, processi, polemiche e ricostruzioni – per ricordarlo e per chiedersi perché la mafia volle far saltare, con la potenza di 500 chili di tritolo, un tratto dell’autostrada A29, uccidendo Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta, e ferendo altre 23 persone. Le esecuzioni di Giovanni Falcone il 23 maggio 1992 e poi del suo amico e collega Borsellino, il 19 luglio successivo – un’altra strage plateale, quella di via D’Amelio, in cui morirono con quel valoroso magistrato altri cinque agenti di scorta – furono eseguite solo per vendetta nei confronti dei due magistrati o furono anche un modo per destabilizzare lo Stato alla ricerca di nuove alleanze politiche?
L’indubbio obiettivo di Cosa Nostra di destabilizzare lo Stato, costringendolo ad una trattativa disonorevole per esso e proficua per essa, non esclude evidentemente lo spirito di vendetta nei confronti di due uomini dello Stato che ne rappresentavano e tutelavano l’onore, conducendo un’azione intelligente e tenace proprio contro l’organizzazione mafiosa e i suoi addentellati nelle istituzioni. Non sono un mafiologo. Ma so che fu Falcone a introdurre le indagini patrimoniali e bancarie sistematiche dei mafiosi per ricostruire i traffici, la rete di complicità e l’intera organizzazione criminosa. Fu Falcone che si batté e realizzò, attraverso un accorto uso delle rogatorie all’estero, una forte, decisiva collaborazione internazionale nella lotta alla mafia. Il pool anti-mafia di Palermo lo ebbe protagonista. C’era lui dietro l’arresto e la gestione del preziosissimo collaboratore Salvatore Buscetta, che svelò la struttura di Cosa Nostra, snocciolò i nomi degli affiliati e delle varie “famiglie”, e consentì di ricostruire le responsabilità di trent’anni di delitti in Sicilia. È sua e di Borsellino l’ordinanza-sentenza di ottomila pagine per il rinvio a giudizio 475 indagati, alla base del maxiprocesso di Palermo, durato quasi due anni, concluso con 360 condanne, 2.665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare. Fu lui a continuare la sua lotta dalla direzione della sezione Affari Penali del Ministero. Fu lui che concepì la Direzione Nazionale Antimafia (Dna), un organismo inquirente coordinato da un procuratore nominato dal Csm, e la Direzione Investigativa Antimafia (Dia). È chiaro che un tipo così, capace di coniugare bonomia formale e spietatezza contro i nemici dello Stato e dell’ordine pubblico, rigore e astuzia, apparente mollezza alla siciliana e durezza estrema nel perseguimento dei suoi fini di magistrato in trincea, efficienza e scaltrezza, non poteva non generare invidie e gelosie anche presso colleghi e uomini delle istituzioni, dai quali in effetti Falcone ricevette sgambetti e ostilità. E soprattutto non poteva non convincere i capi di Cosa Nostra che occorreva farlo fuori con ogni mezzo, insieme al suo amico, collega e sodale Borsellino. Per interromperne il lavoro e l’azione, per essi micidiali, e insieme per vendicarsi.
Secondo te l’intreccio tra Cosa Nostra e pezzi deviati delle Istituzioni è ancora oggi una realtà contro cui lottare?
A questo proposito, il lavoro compiuto in tutti questi anni da alcuni magistrati, uomini delle istituzioni e giornalisti coraggiosi – che hanno avuto come faro l’azione e la testimonianza eroica, fino al martirio, di Falcone e di Borsellino – ha dato i suoi frutti. Ovviamente, non tutto è ancora emerso di ciò che di oscuro è avvenuto in passato, non tutte le responsabilità sono state individuate e perseguite, ma molto si sa, molto è stato scritto, molto fa parte del nostro patrimonio di conoscenze e di capacità di vigilanza contro il ripetersi di quelle deviazioni e contro la sopravvivenza di quell’intreccio, a quel livello, con quelle modalità. La stessa Cosa Nostra è cambiata e forse si può dire che non esista più, per come l’abbiamo conosciuta e, grazie a Falcone e a pochi altri, perseguita e smantellata. Credo che il problema dei rapporti fra criminalità organizzata e istituzioni si ponga oggi in termini molto più frastagliati e diffusi. Non è detto che, in Sicilia, qualcuno non ritenga di poter contare, oltre che su residue ramificazioni militari e collusive, ancora su un pezzo di Cupola o comunque di poter ricostruirne una. Ma i tempi e il contesto, come si dice, sono cambiati. Anche in peggio e in quantità. In Sicilia, in Calabria, in Campania, in Basilicata e adesso anche in Puglia l’attività malavitosa organizzata ha una vitalità che è sotto gli occhi di tutti, persino nei modi antichi del pizzo, dell’estorsione, dell’attentato, delle minacce, dei pestaggi e degli assassinii, in aree metropolitane così come in aggregati urbani più piccoli e periferici. La ‘Ndrangheta e la stessa Camorra sono considerati fenomeni planetari, comunque con i piedi ben saldi nel Sud Italia. Ovviamente sono più moderni i metodi della criminalità organizzata al Nord – oltre che della cosiddetta Mafia Foggiana, con le sue azioni di controllo del territorio e di guerra sulle autostrade – soprattutto per quello che riguarda i rapporti con le istituzioni e la politica, che le cronache ci descrivono diffusamente infiltrate. Un discorso a parte meriterebbe l’area romana e laziale, dove mi pare si intreccino vecchi metodi e nuovi, vecchie mafie e nuove, interessi da suburra e interessi internazionali, ma per farlo bisognerebbe essere dei mafiologi molto aggiornati. Possiamo dire, forse, che anche da questo punto di vista stiamo vivendo una fase di passaggio. Il vecchio non è ancora morto, ma il nuovo non è ancora nato. Del resto, c’è stato il Covid. Adesso ci sono le conseguenze dell’invasione dell’Ucraina. Le cose, di solito, ripartono a bocce ferme. Vedremo. Intanto, zitta zitta o quasi, la criminalità organizzata continua a fare i suoi affari e a compiere le sue malefatte, cercando di fare il minimo rumore possibile. Ma deve fare i conti da un canto con gli inevitabili outsider e stiddari, con le loro esplosioni di gioventù, di mancanza di maniere e di violenza, e con la loro ambizione di prendere i posti dei vecchi decaduti, in carcere o passati a miglior vita, e dall’altro con una generazione di poliziotti e magistrati che riescono spesso ad assestarle colpi micidiali, come è accaduto anche recentemente, con arresti di massa.
Domanda retorica: dunque questa tranquillità, senza i numeri di omicidi e attentati di una volta, significa che la Mafia, la ‘Ndrangheta e la Camorra continuano a fare i loro loschi affari, e che lo Stato più che in passato le sta combattendo?
Ambedue le considerazioni appaiono credibili e reciprocamente compatibili, sul terreno della vita quotidiana, delle malefatte criminali e dell’azione tenace e intelligente delle nuove forze dell’ordine. Però non si può non concludere con una terza considerazione, molto amara, che va detta, che va gridata affinché qualcuno si svegli finalmente. In questi trent’anni, nessun governo ha detto: il problema della criminalità organizzata è la prima questione di questo Paese, quindi è la priorità di questo governo, per cui abbiamo definito una strategia e una struttura specifica per sradicarla, cominciando col toglierle il controllo del territorio in regioni rimaste depresse anche e soprattutto per colpa loro. No, non l’ha detto nessun governo, non l’ha fatto nessun governo, non l’ha detto e non l’ha fatto nemmeno il governo-Draghi in carica, pur godendo di una certa autonomia di movimenti e di ampie risorse. E, in aggiunta a questo, non si vede in giro nessun Falcone. O non ci sono le condizioni perché un Falcone possa emergere. Non dimentichiamo che Falcone e Borsellino erano figli, per dirla schematicamente, della Prima Repubblica e di un’epoca prima di grandi trasformazioni e poi di un improvviso reflusso. Tra il 1992 e il 1994, eliminati anche fisicamente gli “eroi”, nasceva infatti la seconda Repubblica, grazie a una classe dirigente di pavidi e di profittatori di regime, con tutte le sue ombre e la sua normalizzazione al ribasso, con cui continuiamo a fare i conti anche in questi giorni.
BEPPE LOPEZ, classe 1947, è nato a Bari, nel quartiere Libertà. Da giornalista, direttore di giornali e di agenzia e saggista, si è occupato per oltre mezzo secolo di politica interna, di giornali locali e di analisi e critica dell’informazione. Ha collaborato con le più importanti testate nazionali. Ha partecipato come cronista politico alla fondazione del quotidiano la Repubblica. Ha fondato e diretto quotidiani e riviste. Ha diretto la Quotidiani Associati. Ha pubblicato racconti storici e saggi sul giornalismo, ottenendo uno straordinario successo editoriale in particolare con La casta dei giornali (Stampa Alternativa 2007). Di notevole rilievo per la cultura e la musica popolare italiana la sua biografia di Matteo Salvatore, L’ultimo cantastorie (Aliberti 2018).
Ha esordito come narratore con Capatosta (Mondadori 2000), divenuto subito un importante caso letterario, proseguendo con Mascherata reale (Besa 2004), La scordanza (Marsilio 2008) e La Bestia! (Manni 2015).
Sono appena arrivati in libreria il suo ultimo romanzo, Capibranco e la trilogia Quartiere Libertà, contenente i suoi tre romanzi ambientati in questo quartiere popolare di Bari (Capatosta, La scordanza e Capibranco), che raccontano, con un vivace “idioletto” conformato su italiano e materiale dialettale barese, un secolo di vita nazionale e un quartiere simbolico dell’intera umanità.
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