Ho iniziato a leggere Gabriel Garcia Marquez dal suo capolavoro, “Cent’anni di solitudine”. L’ho letto tre volte in una settimana, la prima di getto, in una notte; poi ho preso carta e penna ed ho annotato l’albero genealogico della famiglia del colonnello Aureliano Buendia; poi, con calma l’ho riletto una terza volta, seguendo passo passo le vicende di quella straordinaria famiglia, oramai divenuta la mia famiglia.
La febbre è divenuta altissima, l’ansia di leggere altro, di continuare a far parte di Macondo, di ritrovare il sentiero della solitudine si è impadronita di me.
E così via via mi sono impossessato di “Nessuno scrive al colonnello”, “La mala ora”, “L’autunno del patriarca”, “Foglie morte”, “Occhi di cane azzurro”, “Cronaca di una morte annunciata”, “I funerali della Mamà Grande” nonché la raccolta di racconti “La incredibile e triste storia della candida Erèndira e della sua nonna snaturata”.
Il mio viaggio è durato a lungo, tutto il tempo della giovinezza.
Nel tempo ci siamo incontrati nuovamente, per caso, qualche volta: lui nella sua passionale vecchiaia, è stato molto impegnato a rivendicare per il mondo i diritti delle popolazione sudamericane e la sua produzione letteraria non è stata più così intensa. O ero io a non essere più lo stesso sognatore: “…perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra”.
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