Mario è un contadino. Lo capisci subito quando lo vedi. Per il maglione a maniche lunghe, caldo, sotto la giacca ma soprattutto per quella cravatta con il nodo grosso che maschera l’ultimo bottone chiuso della camicia che vorrebbe esplodere sotto la forza del collo.
Lo capisci quando ti stringe la mano, una stretta forte, decisa, una mano callosa abituata ad utilizzare un attrezzo, non una penna.
Gli occhi ti confermano il vecchio detto del contadino “scarpe grosse cervello fino” che lui ribadisce più volte durante il nostro incontro: gli occhi di chi ha vissuto una esistenza intensa, in cui le tempeste della vita si sono mischiate e confuse con quelle della terra, accumulando esperienza e amore. Amore per la terra, amore per la vita.
Amore per una terra che il padre gli lasciò a 18 anni, un piccolo appezzamento in provincia di Catania, terra di agrumeti, “i migliori del mondo”.
Il contadino diventa imprenditore, in pochi anni crea un’azienda, 15 e più ettari di agrumi esportati in tutta Italia e poi nel mondo, un’azienda in cui si dedicano la moglie, i figli, una quindicina di dipendenti.
Una storia bella, come tante altre storie della nostra terra.
Fino a quella telefonata, 17 anni fa. Mario la ricorda ancora con le lacrime agli occhi, nonostante sia passato tanto tempo e nonostante l’abbia raccontata oramai centinaia di volte innanzi a migliaia di studenti.
È sera, come in tante famiglie meridionali ci si siede tutti insieme a tavola, stanchi per una lunga giornata iniziata alle 5 del mattino.
Il telefono squilla, Mario è il capofamiglia, va a rispondere: “figgh’ ‘e buttan’ devi pagare 500 milioni di lire, altrimenti morirai tu e la tua famiglia. A tuo figlio che fa il militare gli tagliamo la testa e te la facciamo avere a casa! Hai capito?!?”.
La vita cambia. In un momento.
I 200 ragazzi che lo stanno ascoltando capiscono il momento di turbamento, il momento in cui un uomo è messo davanti ad una scelta dalla quale dipende la sua vita ed anche quella dei suoi affetti più cari.
I ragazzi lo ascoltano senza fiatare, guardandolo negli occhi; alcuni sono visibilmente commossi, nessuno smanetta con il cellulare così come spesso li vedi fare.
Hanno davanti a loro un uomo: potrebbe essere loro padre, loro nonno, uno zio, Mario per loro non è più un estraneo.
Mario sceglie. La scelta più difficile, quella di restare un uomo libero, nonostante viva da 17 anni sotto scorta (“i miei angeli custodi”, così apostrofa con grande affetto i due carabinieri che non lo perdono di vista).
Il resto del racconto si snoda attraverso le denunce, una costante ed immutabile fiducia nelle istituzioni nonostante alcuni passi falsi che Mario, lealmente, riconosce ed ammette.
No, non tornerebbe indietro: Mario risponde deciso alle domande dei ragazzi “bisogna avere fiducia nelle istituzioni, bisogna credere nella nostra Carta Istituzionale”.
Si, dice “istituzionale” ma nessuno dei ragazzi ride o sorride, lo hanno capito, Mario il contadino venuto a raccontare loro una normale straordinaria storia, di amore per la libertà, per la sua nazione ma soprattutto per la sua terra.
Si, ha perso molti amici per strada, ha dovuto anche denunciare altri imprenditori, alcuni parenti non lo trattano più.
Lui, però, è sereno, ha molti più amici adesso, a cominciare da quelli della Federazione Antiracket che non lo hanno mai lasciato solo.
Ecco, l’importanza di non essere solo, di avere le istituzioni dalla propria parte ma anche la società civile: lui accorre subito quando sa che c’è un imprenditore minacciato, che vuole reagire, lui lo sostiene, lo aiuta. E per questo continua a subire minacce.
I vecchi amici non ci sono più, forse non erano veri amici, ma che importa? Ci sono tanti nuovi amici.
Guarda i ragazzi dritto negli occhi, Mario il contadino: “da oggi ho duecento nuovi amici che la pensano come me, vero ragazzi?”