12 Ottobre 2024 - Ore
Cronaca / Cultura e Spettacolo / Politica

Beppe Lopez intervistato da Stornaiolo IL DIALOGO DEL LUNEDI’ (dialogo 18)

La lezione di Scalfari, le sue imprese meravigliose, le sue straordinarie virtu’ e i suoi difetti

Caro Maestro, politicamente parlando, nel bel mezzo di una gelida estate, a darci la pelle d’oca non è stata tanto l’ennesima crisi della sventurata politica italiana, quanto piuttosto la scomparsa di un monstre del giornalismo italiano: Eugenio Scalfari. 

Un grande italiano, un protagonista assoluto della storia nazionale dal dopoguerra (almeno dalla fondazione dell’Espresso, nel 1955) al terzo millennio, il più grande giornalista italiano in assoluto. Altro che dopo Montanelli o come Montanelli. A parte le collocazioni politiche (nel caso di Montanelli reazionarie) e la netta differenza di approccio socio-culturale alle questioni sociali (nel caso di Scalfari ben più complesso e moderno), l’uomo di origini calabresi nato a Civitavecchia, figlio di un croupier – e i cui primi lavori sono stati appunto il croupier e il bancario – è diventato negli anni un gigante. Non credo che esista al mondo qualcosa che si avvicini alla sua impresa maggiore: fondare, inventare da zero un nuovo quotidiano nazionale nel 1976 e arrivare undici anni dopo al sorpasso del più venduto e autorevole quotidiano del Paese, il Corriere della Sera, fondato ben un secolo prima, vendendo in media 538.263 mila copie al giorno (e raggiungendo in seguito, con alcuni inserti e allegati particolarmente indovinati, quota 800 mila e punte di 920 mila). Quasi un miracolo. A maggior ragione se si tiene conto che in Italia l’abitudine di comprare e leggere un quotidiano risultava da sempre tra le più basse del mondo civile. Consentendo e imponendo, poi, a tutti i quotidiani e i giornalisti italiani, ma si può dire a tutto il sistema dell’informazione italiana un potente processo di modernizzazione, perlomeno di format e organizzativo.

Come è stato possibile?

Negli anni Settanta il sistema dei quotidiani in Italia era ancora bloccato e storicamente produttore di informazione grigia, al servizio dei potentati economici e politici, quindi senza veri editori e, in conseguenza, a scarsissima diffusione. Scalfari, che non a caso proveniva dal mondo dei settimanali (l’Espresso), settore dove invece l’Italia era all’avanguardia per cultura imprenditoriale, capacità giornalistiche e dati di vendita, fece con semplicità una cosa rivoluzionaria: un giornale concepito, scritto, impaginato e titolato per essere venduto, per conquistare lettori. Era la prima volta che succedeva in Italia. E i risultati non tardarono ad arrivare. A questo bisogna aggiungere la voglia di Scalfari di fare, di arrivare, di primeggiare. “È instabile, femmineo, esuberante. Non ha veri legami né affinità ideali. Tutto è strumentale, utilitario; tutto deve servire alla sua ‘splendida’ carriera”, così lo descrisse il suo maestro Mario Pannunzio, direttore del Mondo, scrivendone a Leo Valiani, altro suo riferimento culturale e politico: “Ha fretta, vuole arrivare. Dove? Forse non lo sa nemmeno”. Non a caso, da giovane, in epoca fascista, scriveva su un giornale fascista; al referendum su Monarchia/Repubblica, evolvendosi, a 22 anni, votò per la Monarchia; poi, evolvendosi ancora, diventò liberale, radicale e socialista, anti-craxiano, demitiano, arrivando a votare per il Pci di Berlinguer e per assecondare virtuosamente (anche se col piglio del conductor) il progetto Moro-Berlinguer finalizzato alla creazione di una “democrazia compiuta” nel nostro Paese. Si aggiunga ancora l’alta considerazione che ha sempre avuto di sé stesso. Un’autostima che insieme -ancora- a una buona dose di cinismo (sempre elegantemente mascherato, ma formidabile nei momenti decisivi della sua vita), al talento, al carattere, alla cultura, alla capacità di relazione, organizzativa e di selezione e gestione dei compagni di lavoro, gli hanno consentito di realizzare quei due capolavori assoluti –a livello editoriale, culturale, politico e sociale- che sono stati il settimanale l’Espresso e il quotidiano la Repubblica.

Dunque: voglia di primeggiare, un po’ di trasformismo e di capacità di adattamento, immagino del notevole narcisismo, autostima, cinismo, carattere, notevole cultura, capacità manageriali…

Hai detto trasformismo? Volgare trasformismo? Niente di più lontano dalla sua auto-percezione. Lui si definiva, con una qualche civetteria, libertino. “Libertino è una parola che ha molti significati. Ce n’è uno filosofico, uno politico, uno sessuale. Spesso non si incontrano i significati nella stessa persona. Io sono stato un libertino… complessivo”.

Capacità manageriali, e poi?

Anche questa cosa del direttore-manager, che è molto circolata nei coccodrilli e nei ritratti che ne hanno fatto in questi giorni, va precisata. Lui è stato direttore-editore. I manager, nelle sue aziende. lavoravano per lui… E poi? Intelligenza, intuito, lucidità, gusto del beau gest, cura della rappresentazione di sé stesso. “Porta la testa come il Santissimo in processione”, così definiva la sua postura il sodale e compagno di avventure (non solo) editoriali Carlo Caracciolo, il Principe. “Era elegante, profumava. Non era mai in disordine. Era un uomo del Sud. Maschilista, quando questa parola non esisteva: non c’era una parola per dirlo. Dispotico, autoritario, eppure democratico” (Concita De Gregorio). Negli ultimi tempi, col trionfo della Rete, dei social e della Tv, la sua figura è diventata popolare, ma già con i tratti inevitabili della decadenza fisica. Avendo perso un po’ della sua strepitosa lucidità -sua cifra esistenziale– arrivava a percepirsi come letterato di prima grandezza, grande filosofo ed esperto di filosofia, addirittura come grande poeta, persino come teologo…

 A questo proposito fammi dare un’occhiata a Indecenti!, il dizionario degli orrori della vita pubblica in Italia da te pubblicato nel 2013 con Stampa Alternativa… Ecco qui. Estrapolavi una citazione di Scalfari dal suo libro Per l’alto mare aperto, così presentato da Einaudi: “Uno dei grandi protagonisti del tempo in cui viviamo ci racconta quattro secoli di modernità: da Montaigne e Cervantes fino a Leopardi e Nietzsche, Descartes, Kant e Hegel, e ancora Tolstoj, Proust, Kafka e Joyce”. In quella citazione Scalfari bacchettava fra gli altri Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Nabokov, Marx e Freud: “Penso che quelle interpretazioni (di Francesco De Sanctis e di Benedetto Croce, ndr) abbiano in comune una sottovalutazione del pensiero filosofico leopardiano che impedisce ad entrambi un giudizio appropriato e completo di quell’autore… Ma il suo giudizio (di Nabokov, ndr) su Rilke è completamente sbagliato… Personalmente continuo a pensare che il desiderio di emulare Hegel, che fu in lui (Marx, ndr) sempre vivo e comunque latente fino alla fine, l’abbia sospinto nel vicolo cieco dell’utopia ideologica… Affermo dunque che la socievolezza costituisce una pulsione originaria  dell’inconscio esattamente come la  felicità  desiderante… Sigmund Freud non compì quest’ultimo passo… Credo che sia stato questo il suo errore… Con tutto il rispetto e l’affetto che ho verso la memoria di (Franco) Volpi, ho la sensazione che gli sfuggano i veri motivi della crisi personale e filosofica di Heidegger…”. Leggo poi sul Giornale che “pochi uomini sono stati adulati come Eugenio Scalfari, che aveva il potere di lanciare e stroncare carriere intellettuali. Secondo i recensori delle sue opere, il filosofo Scalfari «reinventa la forma dello Zibaldone» di Giacomo Leopardi e ricorda Rilke, Montaigne, Rousseau, Keats, Shakespeare, Sterne. Scalfari fu accostato anche a Nietzsche, Croce, Cartesio, Socrate, Eraclito, Parmenide, Proust, Hölderlin, Arendt, Valéry, Eckhart e Pascal. Tra i giudizi memorabili, ricordiamo almeno quelli del critico letterario Alberto Asor Rosa e del teologo Vito Mancuso, solo per caso all’epoca entrambi collaboratori di la Repubblica. Alberto Asor Rosa: ‘Le cime della modernità sono scalate dal nostro autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa, che però non diviene mai volgarizzazione’. Vito Mancuso: ‘Cartesio, Spinoza, Kant, Freud… sono i filosofi che banno contribuito a formare Scalfari, che poi li ha per così dire superati’. Avete letto bene: su-pe-ra-ti”.

Sia chiaro, quella che appare ad un osservatore disincantato e disinteressato perdita di lucidità è definita in ben altro modo da chi gli è stato molto vicino. “Divenuto più fragile fisicamente, aveva sviluppato una dolcezza che non gli conoscevamo”, dice per esempio il suo successore alla guida di Repubblica, Ezio Mauro, per il quale Scalfari era (diventato) “un sentimentale che cercava l’amicizia” e “conquistava ed era conquistato perché aveva in sé il maschile e il femminile”. Dopo una vita che di sentimentalismo ha avuto assai poco e di maschilità molta.

Con lui tu hai fondato il quotidiano la Repubblica, dunque lasciamo ad altri i panegirici sull’uomo ed invece, a noi, regalaci qualche episodio e tratto significativi del suo profilo e del tuo rapporto con lui.

Ho partecipato a quella fondazione facendo il giornalista che si occupa di politica interna, cioè facendo finalmente quello che volevo fare nella vita. E per farlo, affascinato dalla campagna promozionale del nuovo quotidiano in uscita e dalla figura di Scalfari, abbandonai Bari, il mio lavoro di allora (il servizio stampa del primo Consiglio regionale), la mia famiglia e persino l’ex presidente della Regione divenuto presidente della Rai, il molfettese Beniamino Finocchiaro (no, non volevo andare in Rai, volevo fare il giornalista). Mi aggiunsi a quel mitico gruppo di lavoro sin dai numeri zero, nel dicembre del 1975. Mi accorsi subito che mi ero illuso e rischiavo di finire sotto i ponti del Tevere: non ero romano, non appartenevo a nessuna nomenclatura di partito, non portavo in dote a Scalfari nemmeno un qualche rapporto con un big comunista o democristiano, non appartenevo ad alcuna famiglia importante, non frequentavo salotti o terrazzi o campi da tennis dove quasi tutti i miei colleghi si incontravano fuori dal giornale. Qualcuno, a turno, veniva anche invitato la sera a casa Scalfari, dove dopo la cena il direttore si esibiva al pianoforte cantando canzoni francesi o la Rapsodia in blu di Gershwin. Mi accorsi che potevo e dovevo far capo solo a me stesso. Mi detti molto da fare e alla fine mi imposi come cronista politico-parlamentare in una squadra del massimo livello: Fausto De Luca, Miriam Mafai, Bruno Corbi, il barese Giovanni Valentini (che dopo appena due anni andò all’Europeo), il giovane Lucio Caracciolo…

E qualche difetto di Scalfari me lo dici?

Ribaldo dentro, amava i ribaldi. Ne era attratto perché evidentemente si consentivano uno stile o una mancanza di stile che da tempo non consentiva a sé stesso. Addirittura una volta era stato tentato seriamente dall’idea di assumere a Repubblica nientemeno che il craxianissimo Giuliano Ferrara, ribaldo per eccellenza: solo la ferma opposizione dei suoi bracci destri lo indussero a desistere. Un’altra volta, sapendo che Paolo Guzzanti –non solo padre di imitatori e comici, ma imitatore e raccontatore di barzellette di suo– voleva abbandonare il giornale, accettando una allettante offerta del Corriere della Sera, si sdraiò per terra davanti all’ascensore per non lasciarlo andar via… Per me, poi, è assai significativo il passaggio della vendita delle sue azioni a Carlo De Benedetti. Ma come? Da direttore e editore del tuo giornale sei un uomo e un giornalista libero e di successo, nessuno può condizionarti, dovresti considerarti ed essere un uomo e un giornalista felice, comunque nella situazione ideale in cui possa sperare di ritrovarsi un giornalista contento di fare il proprio mestiere e di contare tanto, in quanto giornalista, nella vita del tuo paese, e tu che fai? Vai a vendere le tue azioni, la tua libertà e – come poi avvenne – la tua direzione, come si disse, per comprarti un paio di Canaletto da inchiodare al muro del tuo salotto buono? Secondo me quella fu la dimostrazione della sua incompiuta vocazione giornalistica, proprio di lui, il più grande di tutti!

E i tuoi rapporti con lui?

In quel contesto assolutamente inedito –un grande giornale in formazione, una grande redazione anche un po’ raccogliticcia, un giornale innovativo e quindi una organizzazione work-in-progress, con orientamenti politici, tendenze culturali e caratteri abbastanza diversificati– nacque in Italia il desk. Prima, negli altri giornali, un giornalista faceva tutto: la mattina raccoglieva le notizie, il pomeriggio scriveva il pezzo, la sera partecipava alla formazione delle pagine insieme agli altri giornalisti. Lì, in piazza Indipendenza, ci si cominciò ad attrezzare, distinguendo gli scrittori dagli impaginatori. Ci fu qualche attrito fra chi voleva stare fra i primi, che firmavano e       quindi erano più noti ai lettori e all’esterno, e chi fra i secondi, al desk, che contavano di più all’interno. Io, in quel contesto, in quel momento, avevo voglia di scrivere. Ci furono screzi e io rompevo quotidianamente le scatole a Scalfari contro gli uomini-macchina più infidi (ce n’erano) che discriminavano fra amici e non amici. Ma soprattutto ero deluso da un capo che mi era sembrato in grado di gestire una redazione col suo carisma: invece aveva bisogno e usava i caporali, così come capitava che mettesse un giornalista sportivo a guidare la politica… Ma ti voglio raccontare l’episodio più significativo dei miei rapporti con Scalfari e, insieme, di una peculiarità di fondo del suo carattere, ovviamente assolutamente negata dai ricordi e dalle commemorazioni dell’uomo leale, solare, dolce che si fanno in questi giorni…

Racconta, dài, racconta…

Dicembre 1981. Io, due anni e mezzo prima, mi ero dimesso da Repubblica per andare a fare un giornale democratico e popolare nel Sud, nella mia regione. Parlo del Quotidiano di Lecce. Improvvisamente l’editore del giornale, un industriale tarantino che lavorava con l’Italsider -legato ad un gruppo di potere politico-affaristico locale che voleva disporre direttamente del contenuto del giornale- mi licenziò. Quando le agenzie trasmisero la notizia, Scalfari mi telefonò: “Hai fatto bene, sei uno della famiglia, torna da noi, questa è la tua casa”. Ma poi, come mi svelò Miriam Mafai in Transatlantico, lui dovette fare i conti con i suoi colonnelli -uomini perlopiù modesti ai quali sin da allora affidava la macchina redazionale e i bassi servizi- che vedevamo come il fumo negli occhi un mio ritorno a Repubblica, per giunta da ex-direttore. Così, mentre lui cercava di prepararmi la piazza per il ritorno (parlo di piazza Indipendenza) con i suoi principali collaboratori e tirapiedi, capitò che partisse quello che avrebbe dovuto essere il nuovo, grande quotidiano italiano, l’anti-Repubblica, Il Globo diretto da Michele Tito. Mi offrirono un gran contratto. Scalfari non mi telefonava. Alla fine accettai l’offerta di Tito. Da allora non ho più visto o sentito Scalfari. Del resto, aveva già fatto il beau geste di telefonare per dirmi di tornare in piazza Indipendenza e di incontrarmi successivamente in redazione per confermarmi che “questa è la tua casa”. E lui ai beaux gestes ci teneva.

Cosa hai imparato da lui?

Non l’ipocrisia dei beaux gestes. Purtroppo, non posso nemmeno dire con Augias “di Scalfari mi innamorai a vent’anni…Tutto quello che so come giornalista l’ho imparato da lui”. Io avevo quasi trent’anni, facevo e studiavo da giornalista da tredici, e avevo sempre avuto una buona capacità di mimesi. Cioè guardavo e apprendevo, leggevo e apprendevo. E poi, nei primissimi anni in piazza Indipendenza, l’uomo chiave del giornale fu Gianluigi Melega, proveniente dal Panorama dei “fatti separati dalle opinioni”. È con lui che, nel giro di un paio di mesi, passai da una scrittura politica a una scrittura più propriamente giornalistica. Ma, se non ho imparato direttamente da Scalfari, tutto quello che ho fatto dopo come giornalista ha indubbiamente il taglio, l’approccio e l’essenzialità della Repubblica dei primissimi anni: frutto del suo talento, delle sue capacità, delle sue idee, della sua modernità e della sua tenacia. Solo a uno come lui, solo a lui, con tutte le sue molte virtù e i suoi molti difetti poteva riuscire di realizzare un autentico miracolo come fu all’inizio la Repubblica.

Chiudiamo con l’eredità che Scalfari lascia al giornalismo italiano.

“Il suo corpo mortale ha avuto una lunghissima esistenza. Il corpo del suo giornalismo e delle testate da lui fondate è finito prima”, ha affermato in questi giorni Marco Damilano, l’ultimo direttore dell’Espresso prima della sua vendita a terzi. Non è proprio così. Nel bene e nel male, tutta la stampa italiana di questo mezzo secolo è impastata, spesso inconsapevolmente, di scalfarismo. Comprese ovviamente le sue due testate, vendute a terzi. In positivo lascia al giornalismo italiano l’idea e la pratica di un giornale moderno, fatto per essere venduto. Ma non alla Vittorio Feltri, con le forzature, le volgarità, le fake news e la macchina del fango. In negativo c’è quella che in economia si chiama “modernizzazione senza sviluppo”. La Repubblica, dopo un folgorante inizio rivoluzionario anche nei contenuti, sdoganò il vecchio opinionismo nazionale mantenendo, anzi accentuando progressivamente il rinnovamento grafico e organizzativo. “Con lui finì la grande ipocrisia dei fatti separati dalle opinioni”, ricorda compiaciuto in queste ore Francesco Merlo, firma di punta della odierna Repubblica. E si ricominciò da Montanelli, se non da Scarfoglio, pervenendo ai Feltri, ai Sallusti, ai Travaglio, ai Senaldi, ai talk show in cui sono tutti giornalisti e nessuno fa il giornalista, nel senso che si intervistano fra loro e ogni giornalista rappresenta una opinione –sul Covid, sulla crisi di governo, sull’invasione dell’Ucraina, ecc.- in contrapposizione a un’altra, rappresentata da un altro giornalista. Tutto questo in un Paese che è privo da lungo tempo dei due pre-requisiti che solo consentono, in una società moderna, la formazione di una opinione pubblica: una rete radicata e solida di agenzie di socializzazione, e una diffusa rete di libera informazione. Si può dire che l’Italia, fra le altre sue anomalie storiche (e certamente in connessione diretta o indiretta con esse), è l’unico Paese democratico occidentale ad essere privo di una opinione pubblica. Per cui si assiste a un singolare fenomeno -alimentato autorevolmente in primis da Scalfari– di un’opinione pubblica che non promana dal basso, dalla realtà sociale, e riesce poi a trovare e a dar corpo, per esempio, a una testata giornalistica nazionale, ma che sembra all’opposto derivare dall’alto. Diciamo così, poco democraticamente. Da questo punto di vista va filtrato anche “quello che per lui era l’obiettivo centrale del giornalismo indipendente”, come scrive Marco Ruffolo: “controllare il potere. Anzi, qualcosa di più: erigersi a contropotere”. Scalfari ha fatto e vissuto Repubblica come consapevole e orgogliosa voce di una corposa corrente di opinione progressista, di taglio liberal-socialista, e protagonista di una tenace autorappresentazione di “cane da guardia della democrazia”. Di più: per lui la libera stampa “rappresenta e dà voce alla pubblica opinione in funzione di controllo democratico”. In realtà attribuendo a sé stesso addirittura il “controllo democratico”, presumo delle istituzioni, del governo e della classe politica.

E non è positivo che un giornale si erga a contropotere? 

“Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi” auspicava Brecht. Si potrebbe parafrasare: beati i popoli e i sistemi informativi che non hanno bisogno di un uomo illuminato e capace che si erga a contropotere di questo o quel leader o di questo o quel pezzo di classe politica. Una società in cui la classe politica e le istituzioni democratiche operino sostanzialmente come rappresentanti degli interessi dei cittadini –ecco la prima cosa che ci manca tuttora, nonostante la lunga e tenace opera dell’Espresso, della stessa Repubblica e di Scalfari– deve produrre e ha bisogno di un sistema informativo diffuso che poggi sugli interessi degli editori a fare correttamente impresa (e quattrini) e sulla libertà e la selezione meritocratica della classe giornalistica. E questo è la seconda cosa che ci manca, nonostante il fenomeno Repubblica. Anzi, per qualche aspetto, anche grazie a Repubblica.

Perché dici questo?

Perché Scalfari non ha solo sdoganato la figura del giornalista come opinionista, e fatto da battistrada a decine di giornali nazionali di opinione, di parte e di partito preso. La Repubblica e a seguire il Corriere della Sera hanno fatto terra bruciata attorno a sé. Sono diventati, insieme, giornale di qualità e giornale popolare; veicoli di inserti e allegati settimanali, mensili, ecc.; giornali nazionali e, attraverso le edizioni regionali, giornali locali.

Ognuno cerca di vendere il proprio prodotto. O no? Avrebbero dovuto essere i giornali locali a sapersi difendere. O no?

Sui giornali locali hai mille volte ragione. La colpa principale era (ed è) la loro inadeguatezza e l’incapacità di sottrarsi al doppio errore strategico di imitare i giornali nazionali o al contrario di arrivare in edicola con sgangherati prodotti localistici di serie B. Ma quello che è avvenuto, innanzitutto, ha smentito il progetto iniziale di Repubblica, che avrebbe dovuto essere Le Monde italiano, una testata da 150 mila copie, portavoce di una borghesia illuminata e progressista. Una formula che aveva, avrebbe avuto e avrebbe ancora, anche nell’epoca della Rete, una sua logica. Quello che è avvenuto, però, non riguarda solo la insaziabile e pur legittima voracità di Scalfari direttore e editore – che, di fronte alle praterie lasciate inesplorate dal vecchio sistema editoriale e da lui improvvisamente scoperte, non resisteva alla tentazione di occuparle – ma anche l’abuso di posizione dominante, anche come gruppo di raccolta pubblicitaria.

E ora?

Scalfari è stato giustamente santificato. Il gruppo l’Espresso-Repubblica non esiste più. Molti giornali locali, come l’Espresso, sono già passati in altre mani. La Repubblica dimagrisce sempre più, in copie, in organico e in carisma. Le sue stesse edizioni locali –prima in format champagne, come le pagine nazionali- non differiscono in molto dai loro concorrenti locali, non foss’altro perché confezionati dallo stesso tipo di personale giornalistico in base a canoni pre-anni Settanta (il mestiere di giornalista è stato praticato storicamente, specie al Sud, in base a selezioni parentali e soprattutto in chiave di potere da esercitare in favore di amici e cortigiani, e per la cancellazione sociale di non amici, non cortigiani e liberi cittadini e intellettuali). Il mondo di Scalfari appare morto e sepolto. La speranza è che, qui e là, homines novi, non viziati dall’appartenenza corporativa, possano riaprire spazi sorprendenti, secondo me effettivamente esistenti, specie a livello regionale. Giornalisti alla Scalfari, diciamo così, capaci di individuare e realizzare le cose complesse e semplici che, grazie ai prodromi di un mercato editoriale regalatoci dalla Rete, si stanno svelando fruttuosamente praticabili.

BEPPE LOPEZ, classe 1947, è nato a Bari, nel quartiere Libertà. Da giornalista, direttore di giornali e di agenzia e saggista, si è occupato per oltre mezzo secolo di politica interna, di giornali locali e di analisi e critica dell’informazione. Ha collaborato con le più importanti testate nazionali. Ha partecipato come cronista politico alla fondazione del quotidiano la Repubblica. Ha fondato e diretto quotidiani e riviste. Ha diretto la Quotidiani Associati. Ha pubblicato racconti storici e saggi sul giornalismo, ottenendo uno straordinario successo editoriale in particolare con La casta dei giornali (Stampa Alternativa 2007). Di notevole rilievo per la cultura e la musica popolare italiana la sua biografia di Matteo Salvatore, L’ultimo cantastorie (Aliberti 2018).

Ha esordito come narratore con Capatosta (Mondadori 2000), divenuto subito un importante caso letterario, proseguendo con Mascherata reale (Besa 2004), La scordanza (Marsilio 2008) e La Bestia! (Manni 2015). 

Sono appena arrivati in libreria il suo ultimo romanzo, Capibranco e la trilogia Quartiere Libertà, contenente i suoi tre romanzi ambientati in questo quartiere popolare di Bari (Capatosta, La scordanza e Capibranco), che raccontano, con un vivace “idioletto” conformato su italiano e materiale dialettale barese, un secolo di vita nazionale e un quartiere simbolico dell’intera umanità.

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