Maestro, in città c’è qualcosa che non va. Un mesetto fa si è svolto il Bari Pride in un clima di felicità, gioia e rispetto e dopo manco un giorno, in un parco cittadino, c’è stata un’aggressione omofoba che ha amareggiato tante e tanti perché proprio non ci voleva. Ma quando capiremo che la diversità è una ricchezza?
La diversità è ricchezza, in tutti i campi. In particolare per la libertà di comportamento e le scelte di vita di tutti i singoli individui… Cosa c’è di strano/ Da guardare tanto/ Forse perché noi non siamo/ Vestiti bene/ Pettinati come voi/ Beh, se non vi piace/ Così come siamo/ Non vi resta che voltarvi/ Dall’altra parte/ E non far caso a noi/ Ognuno è libero/ Di fare quello che gli va/ Ognuno è libero/ Di fare quello che gli va/ Tanto più che noi/ Non cerchiam nessuno/ Non ci siamo mai sognati/ Di convincere gli altri/ A vivere come noi… Così cantava Luigi Tenco, nel 1966, prima del pieno avvento del Sessantotto, auspicando il superamento dell’autoritarismo allora diffuso e profondo in tutte le pieghe di quell’Italia. Poi, effettivamente, esso fu effettivamente e radicalmente ridimensionato, se non sradicato nei rapporti personali e nel costume. Altro che “vestiti bene, pettinati come voi”! La rivendicazione del libero amore, che per i reazionari era rilassatezza e degrado dei costumi, evocando orge di tutti i tipi, si basava sul semplice principio che lo Stato non doveva entrare in camera da letto e che i sentimenti dovevano essere liberi e non condizionati da regole e rigide costrizioni. Il fatto che oggi un dato come questo sembra scontato e quasi banale – insieme all’assurdità delle autoritarie pretese dei capi di tutti i tipi e contesti (capifamiglia, capiufficio, direttori, vescovi, parroci, presidi, docenti, capisquadra, caporali, ecc. ecc.), anch’esse allora sradicate – la dice lunga sulla profondità e radicalità dei cambiamenti avvenuti in Italia sessant’anni fa. E ancora oggi, spesso inconsapevolmente, i comportamenti di coppia e familiari sono illuminati e condizionati da quella grande battaglia culturale, morale e civica contro l’istituzionalizzazione dei sentimenti, in primis attraverso il matrimonio, allora doppiamente e indissolubilmente codificato da Strato e Chiesa.
Il Rapporto Istat 2022 confermerebbe questa tua valutazione: crollo dei matrimoni nel 2020 rispetto al 2019; accentuata tendenza alla diminuzione e al ritardo della nuzialità che si osserva da oltre quarant’anni; e prosegue e si rafforza l’aumento dei nati fuori dal matrimonio; tra i nati fuori dal matrimonio, la quota maggiore è rappresentata da nati con genitori mai coniugati (coppie di celibi e nubili); i divorzi sono stati in costante aumento dall’introduzione di questa possibilità nell’ordinamento italiano nel 1970 fino alla metà del decennio scorso. Dal 2015 il numero di divorzi ha subito una forte impennata (+57,5 per cento in un solo anno), a seguito dell’entrata in vigore di due leggi che hanno semplificato e velocizzato le procedure consensuali senza rivolgersi ai tribunali… Ma, come si spiegano il Gay Pride e poi i frequenti casi di omofobia a Bari, come in altre città? Anche la Regione Puglia sta facendo la sua parte per essere sempre più colorata. Va veloce la Legge contro l’omobitransfobia. Secondo te quanto è necessaria la politica per addrizzare la capa storta di chi non capisce che “ognuno è libero/ di fare quello che gli va”?
Primo, non credo che tutti i casi di asserita “omobitransfobia” – termine che in rete viene tradotto con “ogni forma di discriminazione contro le persone lesbiche, gay, bisessuali o trans” – riguardino le mere conseguenze di “un’avversione ossessiva per gli omosessuali e l’omosessualità, i transessuali e la transessualità”, come invece Google traduce il termine semplificato “omotransfobia”. Esiste oggi nel Paese un clima che evidentemente nutre o comunque consente l’esplosione di casi di aggressività, prepotenza, violenza e bullismo ai danni in particolare dei fragili, dei diversi e dei privi di tutela (donne, bambini, omosessuali, immigrati, clochards, ecc.). Secondo, “ognuno è libero/ di fare quello che gli va” significava inizialmente vestirsi come ti pareva, farsi crescere i capelli, dire di no alla guerra, poi anche avere rapporti sessuali tra fidanzati. Insomma, “quello che ti va” senza far danni agli altri. Ricordi Tenco? “Non ci siamo mai sognati/ di convincere gli altri/ a vivere come noi”. Invece, in pieno Sessantotto, si alza il tiro, si vuole “convincere gli altri/ a vivere come noi”, si vuole cambiare la società, si vogliono abolire le sovrastrutture dominanti nel corso dei decenni, dei secoli e dei millenni nei rapporti fra individui e nei rapporti sociali.
“Nelle scienze sociali, sovrastruttura è l’insieme di reazioni positive che mantengono una struttura coerente e significativa in una data società, o in una parte della stessa. Può comprendere le istituzioni culturali, le strutture di potere, i ruoli ed i rituali” (Wikipedia).
Autoritarismo, strutture di potere, ruoli, rituali… Per esempio, appunto, le sovrastrutture, le pratiche e i ruoli di potere sorte attorno alle differenze fra uomo e donna, in particolare attorno al pene e alle caratteristiche/modalità/esigenze della procreazione, con una ruolizzazione fortemente subalterna della donna. E insieme con una marginalizzazione umiliante, quando non criminalizzante degli uomini dall’incerta identità sessuale, comunque non adeguatamente e gloriosamente maschia. Ecco le “sovrastrutture” che, in materia, si contestavano e si combattevano Con esiti, secondo me, positivi: si pensi a ciò che ha significato e significa il femminismo (certo, molto cammino resta da fare ma molto è stato fatto) e appunto la “liberazione sessuale” e il movimento omosessuale…
E poi che è successo? Che sta succedendo adesso?
Ne è passata di acqua sotto i ponti, da allora. Come è successo in altri campi, si è passati da un eccesso all’altro. Mi ricordo di quando, da allievo dei salesiani, al Redentore, si andava a vedere film castigatissimi al cinemetto dell’oratorio. Non solo non si vedevano scene di sesso, ovviamente, ma la pellicola saltava regolarmente quando un uomo si alzava da una sedia e si dirigeva verso una donna presumibilmente con l’intenzione di abbracciarla o addirittura di baciarla. Si pensi invece all’overdose di sesso (al cinema, in Tv, sui manifesti stradali, su giornali e riviste, ecc.) a cui sono stati sottoposte le generazioni successive alla mia. Da un eccesso all’altro. E si pensi poi all’overdose di rappresentazione e di evocazione dell’omosessualità in particolare nella pubblicità e nella promozione commerciale della moda ad opera di grandi stilisti notoriamente in prevalenza omosessuali. E poi alla sempre più frequente presenza e citazione dell’omosessualità nel cinema, in Tv, nei mass media in genere e infine anche nel dibattito politico e fra i politici… Credo che si possa parlare di una sovra rappresentazione del fenomeno, proficua da più punti di vista a livello di ceti metropolitani alti, ricchi e mediaticamente privilegiati, ai quali si deve la conquista di diritti sempre più ampi e arditi registratasi negli ultimi tempi (il matrimonio, l’adozione, l’utero in affitto, ecc.), mentre in provincia cresce il gap fra aspirazioni e concrete realizzazioni dei livelli di libertà evocati dai mass media, determinando disorientamento e frustrazioni. Si tende ad andare da un eccesso all’altro e su posizioni radicalizzate contrapposte. La mia generazione contestava e voleva abolire le sovrastrutture accumulatesi sulle differenze sessuali e sui meccanismi della riproduzione, non queste differenze e questi meccanismi. Ammesso e non concesso che si possano abolire e che i tentativi di farlo non siano illusorii e comunque alienanti…
Spiegavi molto chiaramente la tua opinione, a questo proposito, nel febbraio 2016, nel blog che pubblicavi su ilfattoquotidiano.it (“Unioni civili, l’esclusione degli etero e il clamoroso errore dei filo-gay”). Una opinione controcorrente venendo da un intellettuale di sinistra ma con una sua logica incontestabile: “A parte l’antica battaglia laica e progressista contro il matrimonio come pretesa e velleitaria istituzionalizzazione dei sentimenti e ruolizzazione delle persone, e a parte, ad altro livello, lo stesso folklore macchiettistico e caricaturale dei gay pride, la rivendicazione degli istituti, dei modi e persino delle peculiarità genetiche e fisiche degli eterosessuali appare non la rivendicazione del sacrosanto diritto a poter vivere liberamente e dignitosamente la propria omosessualità, ma, in virtù di un gigantesco equivoco, esattamente l’opposto: negarla, negarsela”.
In quel post polemizzavo con Monica Cirinnà (autrice del disegno di legge intitolato “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”) e il sottosegretario Ivan Scalfarotto. Quella battaglia per il matrimonio omosessuale e la mancata battaglia per una unione civile senza distinzione di sesso mi apparivano anch’esse frutto di un equivoco analogo, sempre nella rigida oscillazione fra etero-caricatura (il matrimonio, come gli eterosessuali) e ghetto (le unioni civili, ma solo “per noi”). Oscillazione simile, sostenevo, a quella di cui soffre il confronto politico nazionale su queste problematiche: da una parte, un eccesso di schiacciamento sulla componente naturale (la coppia è composta solo da maschio e femmina), dall’altra su quella culturale (anche due maschi o due femmine che si amano debbono potersi sposare e fare/acquisire figli). L’umanità è invece, se non equilibrio, certamente e ineluttabilmente impasto di natura e cultura; si esalta e si contraddistingue valorizzando e/o svalutando, anche sino ai limiti estremi, l’una o l’altra, ma negherebbe sé stessa se pretendesse di ignorarne totalmente la ineliminabile differenza. Non di ruolo sociale, ma sessuale. Relativa alla riproduzione. E del resto dovrebbe essere chiaro che tutta la polemica e lo scontro sulle unioni civili non riguarda esattamente la vita sessuale, l’affettività, i sentimenti, i gusti e il diritto alla libertà individuale, ma la sfera degli istituti giuridici, che sono tutt’altra cosa. Una volta, si sarebbe detto: il loro opposto.
Sai che l’art.1 del disegno di legge Zan, fortemente boicottata dalle forze di destra…
No, ti prego non mi ricordare questa ennesima “battaglia civile”, peraltro per ora persa, che non ho più seguito da quando mi sono accorto con amarezza che, per tutte le cose dette sinora, non condividevo, insieme, le posizioni reazionarie dei contrari e alcune delle pretese dei favorevoli. Mi sono sentito solo, con i miei dubbi e le mie antiche certezze.
Sai che l’art.1 del disegno di legge Zan, fortemente boicottata dalle forze di destra, prevede la distinzione fra “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e identità di genere”?
Sì, lo so, ma non ho più seguito…
E che per “identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”?
Mi dichiaro prigioniero politico.
BEPPE LOPEZ, classe 1947, è nato a Bari, nel quartiere Libertà. Da giornalista, direttore di giornali e di agenzia e saggista, si è occupato per oltre mezzo secolo di politica interna, di giornali locali e di analisi e critica dell’informazione. Ha collaborato con le più importanti testate nazionali. Ha partecipato come cronista politico alla fondazione del quotidiano la Repubblica. Ha fondato e diretto quotidiani e riviste. Ha diretto la Quotidiani Associati. Ha pubblicato racconti storici e saggi sul giornalismo, ottenendo uno straordinario successo editoriale in particolare con La casta dei giornali (Stampa Alternativa 2007). Di notevole rilievo per la cultura e la musica popolare italiana la sua biografia di Matteo Salvatore, L’ultimo cantastorie (Aliberti 2018).
Ha esordito come narratore con Capatosta (Mondadori 2000), divenuto subito un importante caso letterario, proseguendo con Mascherata reale (Besa 2004), La scordanza (Marsilio 2008) e La Bestia! (Manni 2015).
Sono appena arrivati in libreria il suo ultimo romanzo, Capibranco e la trilogia Quartiere Libertà, contenente i suoi tre romanzi ambientati in questo quartiere popolare di Bari (Capatosta, La scordanza e Capibranco), che raccontano, con un vivace “idioletto” conformato su italiano e materiale dialettale barese, un secolo di vita nazionale e un quartiere simbolico dell’intera umanità.
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