29 Aprile 2025 - Ore
Politica

Beppe Lopez intervistato da Stornaiolo IL DIALOGO DEL LUNEDI’ (dialogo 16)

ANNI DI PIOMBO? PIUTTOSTO UNA GRANDE FASE STORICA OSTEGGIATA CON LA VIOLENZA E LE STRAGI

Sembra una maledizione, eppure ciclicamente, ci ritroviamo a fare i conti con gli anni di piombo. L’occasione, questa volta, è la mancata estradizione di dieci ex terroristi dalla Francia.  

Prima cerchiamo di chiarire di cosa parliamo o, meglio, di cosa comunemente si intende quando si evocano gli anni di piombo.

 

Andiamo a vedere su Wikipedia: “Gli anni di piombo identificano in Italia un periodo storico compreso tra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni ottanta del XX secolo, in cui si verificò un’estremizzazione della dialettica politica che produsse violenze di piazza, lotta armata e terrorismo”. 

Per parlare di anni di piombo – a mio parere schematicamente (e impropriamente) – si usa separare, come fa Wikipedia, gli anni Sessanta dagli anni Settanta, schiacciandosi sul secondo decennio ma privandolo delle radici, delle cause e del cominciamento corposamente appartenenti al primo decennio. Insomma quella sarebbe stata e comunque viene ricordata come una orrenda, infame stagione di stragi e attentati, apertasi con la bomba di piazza Fontana nel 1969 e prolungatasi di qualche anno dopo la strage di via Fani e l’assassinio di Moro nel 1978. In realtà si trattò di un ventennio organico di progresso e azioni virtuose e di reazioni violente, criminali. Un ventennio che tiene dentro un sacco di roba: i malumori e le reazioni ai primi tentativi di governi di centro-sinistra (vale a dire col Psi) nei primi anni Sessanta e poi alle prime innovazioni e riforme radicali e di struttura (scuola media unificata, nazionalizzazione delle industrie elettriche, legge sul divorzio, statuto dei lavoratori, istituzione delle Regioni, costituzione della Commissione Parlamentare Antimafia, ecc.), l’attività dell’organizzazione para-militare Gladio della Cia, il Sessantotto, lo scontro studenti-Polizia a Valle Giulia, la radicale trasformazione dei rapporti sociali in senso anti-autoritario, l’inquinamento dello Stato ad opera della P2, il tentativo di colpo di Stato del 1970 organizzato da Junio Valerio Borghese, la strage di piazza della Loggia del 1974, l’avvio nel 1976 della solidarietà nazionale con il progressivo coinvolgimento del Pci nelle maggioranze, il servizio sanitario nazionale, la strage di Bologna del 1980… E dimentico molte altre cose. Una stagione alta della nostra storia, non a caso contrastata con tutti i mezzi, anche col piombo. Magari li definisse sciattamente anni di piombo solo Wikipedia. Tante volte e da parte di tanti luoghicomunisti e pressappochisti proprio tutto quel ventennio è stato così sintetizzato – “violenze di piazza, lotta armata e terrorismo” – da essere diventato appunto un luogo comune. Di più: una banale verità, un dato di fatto… E questo perché le tante, tante cose che sono succedute dentro agli anni Ottanta e dopo – il riflusso, l’americanizzazione, la tv commerciale, il crollo dell’impero sovietico, la corruzione, il terremoto politico di Tangentopoli, il tramonto apprima delle ideologì e poi dei valori, la fine dei vecchi partiti, la logica maggioritaria, la personalizzazione della politica, il menefreghismo e la rassegnazione, il cinismo, l’individualismo, il liberismo, la fine dello “stato sociale”, eccetera eccetera eccetera – si sono accavallate l’una sopr’all’altra, incrociate, ammucchiate, ammassate, misckate, e qualche uno ha pure provveduto (e continua a provvedere) a miscelarle ad arte, sino a formare una fonte inesauribile di pozione della scordanza…

 

Guarda che so leggere anch’io… La scordanza di Beppe Lopez, pag. 297: …Mo siamo tutti imbriachi, acciuccati di scordanza. Un’imbriacatura collettiva. La perdita di memoria e di coscienza come strategì per scire ’nnanzi, per difendere la robba propria senza farsi distrarre dall’“impegno sociale”. O, peggio ancora, dalla comprensione e dalla solidarietà per chi è rimanuto dreto, per chi non ce la fa, per chi è poveriddo o è solo come un cane. La solidarietà? La partecipazione?  Gli ideali del Sessantotto? La liberazione individuale e collettiva? Le aperture degli anni Settanta? Il rispetto dell’altro e del diverso? Tutta robba pericolosa, rischiosa, velleitaria, irrealizzabile. Perciò: mai veduta, mai sperimentata, mai esistuta. Da isolare e combattere se la si intravvede appena, da comprimere e neutralizzare se la si sente, pure solo per un momento, che respira ancora dentro a chissà quale spigolo sperduto della coscienza. La smemoratezza mettuta al servizio dello scetticismo. L’Italia di mo è nasciuta ieri, dentro agli anni Ottanta. Abbasta che stamo bbuono noi. E chi vene da dreto achiudesse la porta. Chi vole la vita che se la campa. «Il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà» ribaltati in ottimismo dell’intelligenza e pessimismo della volontà. «Il radicalismo dell’analisi e il gradualismo della politica» ribaltati in ragionamenti all’acqua di rose e in comportamenti radicali, aggressivi, violenti. Tutti a cantare: Io penso positivo perché son vivo perché son vivo, non avvertendosi di essere murti e stramurti, di essere cecati e sordi, di non riuscire a farsi carico delle ingiustizie e della disperazione umana…Ma che vuole significare questa lunga e bella citazione? Che forse gli “anni di piombo” non sono mai esistiti e che negli anni Sessanta e Settanta non ci furono violenze di piazza, lotta armata e terrorismo?

Liquidare con “anni di piombo” quella stagione è più che riduttivo. Significa stravolgere i fatti e ribaltare il loro senso profondo, la loro portata storica. Certo, coloro che possiamo considerare i mandanti della strategia della tensione, dei colpi di Stato e del terrorismo sono riusciti, a cavallo della fine degli anni Ottanta, a sconfiggere il tentativo di Moro e Berlinguer di creare una “democrazia compiuta” e di emancipare il Paese (e l’Europa) dal dominio delle due grandi potenze che dominavano il mondo. Ma questo non significa che quei vent’anni furono anni di piombo. Ci fu uno scontro feroce fra gli amanti e gli odiatori della democrazia e del progresso. I secondi vinsero e hanno determinato il declino e la decadenza di un Paese sino agli anni Settanta vivace e industrioso. Però, come cantava Pierangelo Bertoli, potete forse farci rallentare però non vi crediate sia finita. Negli anni Sessanta e Settanta, naturale prosecuzione della laboriosa ricostruzione avviata negli anni Cinquanta, anche con il dramma delle ondate emigratorie, questo Paese – al confine fra Est e Ovest, fra Nord e Sud, al centro del Mediterraneo – ha vissuto la sua stagione più tormentata, più bella e più nobile: i migliori anni della nostra vita, la meglio gioventù, l’ascensore sociale, le battaglie per il lavoro e per la casa, i diritti civili, il lungo sessantotto studentesco e insieme sindacale, il femminismo, le riforme di struttura, il cinema, la letteratura, il dibattito culturale, il protagonismo degli intellettuali, la dignità dei lavoratori…

 

Però qualcuno ha sparato, o no?

Come potrei dire che non si è sparato e non c’è stato il terrorismo? Io dico che quel ventennio fu molto di più che “anni di piombo”. Furono venti lunghi anni di progresso osteggiato ma straordinario, di emancipazione individuale e collettiva, di evoluzione della politica. Lo stesso terrorismo è la riprova di quel che dico: bisogna metterlo in conto alla reazione degli interessi messi in discussione da quella straordinaria stagione. Interessi economici, affaristici e geostrategici. Attentati, strategia della tensione e stragismo furono messi in campo proprio per interrompere, sconfiggere e alla fine persino infangare quella splendida stagione.

 

Perché non riusciamo a tracciare una linea definitiva con il nostro passato? Siamo antifascisti, ma anche no. Siamo contro il terrorismo, ma dipende. Ma soprattutto siamo succubi di nazioni come la Francia, per l’appunto, che non sempre rispettano le nostre legittime istanze. Come mai?

Io un’idea ce l’ho, l’ho detta e ridetta, scritta e riscritta. Non capiremo nulla del nostro presente e del nostro passato prossimo finché non ci sarà chiaro che la nostra storia ha avuto uno spartiacque, appunto alla fine degli anni Settanta: l’interruzione del nostro contraddittorio eppure straordinario processo di democratizzazione e modernizzazione simboleggiata – a proposito di terrorismo (inquinato e geostrategicamente motivato) – dal clamoroso ed effettivamente decisivo assassinio di Aldo Moro nel 1978. Da allora è cominciato il nostro declino e la nostra resa come comunità e nazione. Tutto ciò che è avvenuto in questo quarantennio non è comprensibile, non ha alcun a logica, se non si parte di lì, da quella brutale interruzione. Certo, il minimo che ci capita è di essere persino succubi della Francia, ma per il semplice fatto che una delle conseguenze di quello spartiacque e del quarantennale declino è che abbiamo una classe politica e un assetto istituzionale molto più deboli di quelli d’oltralpe. In questo caso, abbiamo dalla nostra parte persino il capo dello Stato francese Macron. Ma nemmeno questo è bastato rispetto al potere di quella magistratura e a come essa interpreta e applica la cosiddetta Dottrina Mitterrand, che dovrebbe assicurare diritto di asilo in Francia a cittadini stranieri responsabili di violenza politica, ma non di reati di sangue. 

 

Fatto sta che dagli anni Ottanta l’Italia subisce questo sgarro. E che nemmeno lo specifico intervento di Draghi e della nostra ministra della Giustizia Cartabia, e l’impegno personale di Macron hanno cambiato la situazione.

Questo sinora. Non enfatizzerei l’episodio oltre il necessario. Le motivazioni di quelle dieci, mancate estradizioni mi sembrano speciose e marcate da arroganti pregiudizi (processi in contumacia, la “nuova vita” consentita a quei dieci di rifarsi in Francia in quarant’anni, nessuna certezza di un nuovo “equo” processo in Italia). È possibile persino che, nei prossimi mesi, quegli ex-terroristi vengano consegnati all’Italia. Vedremo. L’importante, almeno per quello che mi riguarda, è che la si smetta di etichettare quella fase della storia d’Italia come “anni di piombo”. E che si prenda coscienza dello spartiacque della storia nazionale segnato dall’assassinio di Moro e delle sue devastanti conseguenze, per capire il nostro degradante passato prossimo e il nostro sventurato presente. È l’unica via che intravedo per uscirne, finalmente e per riprendere il passo di un Paese al centro della storia e padrone del proprio futuro. Non imboccando questa via, continueremo ad arrancare.



BEPPE LOPEZ, classe 1947, è nato a Bari, nel quartiere Libertà. Da giornalista, direttore di giornali e di agenzia e saggista, si è occupato per oltre mezzo secolo di politica interna, di giornali locali e di analisi e critica dell’informazione. Ha collaborato con le più importanti testate nazionali. Ha partecipato come cronista politico alla fondazione del quotidiano la Repubblica. Ha fondato e diretto quotidiani e riviste. Ha diretto la Quotidiani Associati. Ha pubblicato racconti storici e saggi sul giornalismo, ottenendo uno straordinario successo editoriale in particolare con La casta dei giornali (Stampa Alternativa 2007). Di notevole rilievo per la cultura e la musica popolare italiana la sua biografia di Matteo Salvatore, L’ultimo cantastorie (Aliberti 2018).

Ha esordito come narratore con Capatosta (Mondadori 2000), divenuto subito un importante caso letterario, proseguendo con Mascherata reale (Besa 2004), La scordanza (Marsilio 2008) e La Bestia! (Manni 2015). 

Sono appena arrivati in libreria il suo ultimo romanzo, Capibranco e la trilogia Quartiere Libertà, contenente i suoi tre romanzi ambientati in questo quartiere popolare di Bari (Capatosta, La scordanza e Capibranco), che raccontano, con un vivace “idioletto” conformato su italiano e materiale dialettale barese, un secolo di vita nazionale e un quartiere simbolico dell’intera umanità.

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