Non sono una giornalista, men che mai una scrittrice; non ho responsabilità pubbliche, né rivesto ruoli di sorta.
Sono una donna che non si legge esclusivamente nella sua dimensione privata; credo nella responsabilità che ogni cittadina ed ogni cittadino ha di “sentire l’altro nella propria pelle” e credo che il destino dei più deboli ci riguardi sempre perché figli nostri non sono solo i nostri figli.
Sono madre ed in questi giorni di Pandemia sono anch’io a casa; sono qui come tutte le donne e gli uomini di questo Paese che non sono in prima linea negli ospedali ma che sono comunque chiamati a rispondere della propria Libertà pur rispettando le norme di distanziamento sociale promulgate dal governo a tutela della Salute pubblica; sono qui a cercare di elaborare questo “trauma” giunto all’improvviso, violento e inaspettato e provo comunque a non ripiegarmi su me stessa perché non voglio smettere di ascoltare, di scegliere, di fare la mia parte.
Provo a riflettere sull’inesorabile fallimento di ogni strategia perpetrata negli ultimi quarant’anni (almeno!) di rimozione collettiva di tutto ciò che non sia stato possibile ridurre alle categorie del pensiero neoliberista assieme all’insufficienza delle dialettiche del pensiero cosiddetto “materialista” anch’esse inadeguate ad interpretare un presente in cui servi e padroni non sono più precisamente distinguibili e dove il lavoro, la fabbrica non sono più fondanti dell’identità individuale; oggi persino la Scienza fatica a trovare forme di contrasto ad un nemico che dimostra di conoscerci molto più di quanto siamo stati in grado (nonostante Studi, ricerche, “progresso”) di conoscerci noi.
Abbiamo avuto l’ardire di affrontare ogni sfida eppure, gonfi della nostra superbia, abbiamo pensato di non aver bisogno di arricchire il nostro vocabolario di parole come “cura”, “condivisione”, “vulnerabilità”; credevamo di aver tutto “sotto controllo” e così facendo abbiamo smarrito l’Oracolo.
Poco più di un mese fa con Olga Diasparro (la mia amica avvocata con un talento prodigioso per la fotografia) ci siamo recate a Taranto per partecipare alla manifestazione organizzata dall’ETS “Genitori Tarantini” in occasione della “giornata delle vittime dell’inquinamento”, una manifestazione che ha coinvolto tutto il tessuto associativo cittadino e che è andata oltre la città stessa richiamando a raccolta diversi comitati regionali contro l’inquinamento e per la salvaguardia ambientale.
Anche la “Casa delle donne del Mediterraneo” è stata coinvolta.
Così, pur portando con Olga tutta la solidarietà delle ventiquattro associazioni che costituiscono “la nostra Casa”, ho sentito di aderirvi soprattutto come figlia di questa Terra di Puglia, come cittadina in ascolto, come madre; è così che i volti impietriti delle donne e degli uomini di Taranto sono diventati le Sacre Ceneri sul mio capo in un Mercoledì di inizio Quaresima sferzato dal gelido vento della Tramontana.
Non ricordo le parole pronunciate sommessamente al megafono dai familiari delle vittime dell’inquinamento, non ricordo più i loro volti, né i colori sui cartelloni preparati dai più piccoli.
Ricordo solo le croci, una fila interminabile di croci bianche.
A Taranto la Morte è una terribile consuetudine, un’esperienza che non è stato mai possibile eludere, assieme alla paura e all’angoscia del domani.
A Taranto la “quarantena” per i bambini di alcuni quartieri (come il quartiere Tamburi) non è soltanto l’innaturale accadimento di un tempo tragico ma è la condizione imposta da un sistema che “strutturalmente” ha scelto di anteporre il profitto alla salute dei cittadini.
Anche in tempo di Pandemia, difronte al rischio globale, l’Ilva di Taranto (pur applicando la cassa integrazione in deroga per tutti gli operai) si limita alla sola “razionalizzazione” del suo ciclo produttivo, non spegne i suoi motori nonostante i rischi di contagio da covid-19 all’interno della fabbrica siano evidenti; Arcelor Mittal non tiene conto dei rapporti dei rappresentanti per la sicurezza ed in più, allo scadere dei termini, presenta l’ennesimo vergognoso ricorso al Tar della Puglia contro l’ordinanza del Sindaco Melucci che a fine Febbraio ha chiesto di rimuovere con azioni concrete le cause delle emissioni nei cieli della sua città.
Nei prossimi giorni la nostra Italia, a partire da ogni sua più piccola comunità, si confronterà sempre di più con l’aumento del numero dei morti da Coronavirus e con l’inevitabile recessione economica che investirà l’intero sistema economico nazionale ed internazionale.
Nessuno potrà non misurarsi con le necessità primarie e nessuno potrà eludere la paura della morte.
Eppure già in queste prime settimane ognuno di noi, caparbiamente, sta scegliendo la vita; ogni medico, governante, ogni padre di famiglia, ogni piccolo imprenditore, ogni professionista, ogni insegnante, tutti noi stiamo difendendo questa vita con le unghie e con i denti.
In questa lunga Quaresima, ognuno, da solo nel proprio deserto, è alla ricerca di una fonte salvifica; siamo tutte e tutti in attesa di una Pasqua.
Ma nell’invocazione di una cura per questo virus che non perdona, assieme al miracolo attendiamo le risposte, attendiamo le scelte che quella vita la difendano, fino in fondo.
Ecco allora ancora una volta questa sera, caparbiamente in preghiera, proprio mentre il Faro alla mia finestra si accende mi domando: quando noi altri saremo finalmente salvi, quanti morti ancora dovrà contare la bella Taranto per avere diritto, finalmente, alla sua Resurrezione?
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