6 Dicembre 2024 - Ore
Cultura e Spettacolo

Infinito

Un racconto di Francesca Palumbo

Le conosco le Murge, le conosco bene perché ho viaggiato tanto per raggiungere le scuole a me assegnate negli anni di precariato. Eccomi, sono una prof e ho girato per le Murge in lungo e in largo. Le ho amate le Murge e a volte, lo ammetto, le ho anche odiate!
Di tanto in tanto le ho anche bestemmiate e altre volte, invece, le ho invocate, come quando si richiamano, nei sogni, i propri cari scomparsi.
Io le ho dentro le Murge, sparse come piccole schegge di luce; incastonate tra ricordi di iazzi e di muretti a secco, dove le pietre stanno abbracciate strette strette incollate con la calce e con l’aria, incastrate con la perizia che solo possiedono quelli che come me cercano afflato negli equilibri, una precarietà di punte acuminate che si ammorbidisce e leviga per diventare parete o protezione o perimetro accogliente di una natura che respira a ondate.
Ecco i boschi e gli odori e i sassi, la terra è brulla a volte dimessa a volte spavalda, una terra di zolle e speranza, salite e discese, cosparsa di ferule che adornano gravine su cui affacciarsi sfiorando orli e precipizi, confini invitanti e massosi, ponti di rocce e lame e sprofondi.
Viaggiavo sì, anni e anni fa che ero ancora una pischella, una cattedra di cinque anni a Spinazzola, poi un anno ad Altamura, due anni a Cassano infine, dove sono diventata di ruolo e poi via di ritorno a Bari nella mia città.
Mi muovevo in treno i primi anni e per andare a Spinazzola dovevo partire all’alba e poi cambiare a Barletta. Era dura: mi addormentavo nel vagone insieme ai contadini. A Barletta mi giungevano gomitate anonime, la solidarietà scolpita su quelle facce rugose e gli occhi stanchi. I modi erano schietti e privi di cerimonie. Bisognava scendere e cambiare treno, veloci, senza troppe storie. Facevo sobbalzi e ringraziavo senza sapere chi, un grazie sussurrato e generico che rimbalzava timido sui polpastrelli callosi di quelle mani grosse e indurite dalla fatica.
Era freddo d’inverno a Spinazzola, un freddo severo che rosicchia le ossa, dalla stazione a piedi verso la scuola camminavo di passo col bavero alzato e lo sguardo timido di chi si sente forestiero. Solo anziani ricurvi seduti al bar della piazza a quell’ora. Accucciati nei loro berretti sussurravano ruffiani ‘Chess avajess la bares che inzegn au Pilon’. Erano buffi e gentili, al mio passaggio sollevavano i berretti in un accenno di inchino monco. Sulle loro bocche anche il nome altisonante della Ada Ceschin Pilone, cui era intitolato il mio liceo, si trasformava in qualcosa di robusto e rurale.
Comprai una Fiat Uno l’anno dopo, non esistevano ancora i cellulari, dunque era maggior pericolo che mi trovassi a restare bloccata e da sola per strada, sul ghiaccio o sulla neve, tra le curve solitarie e magnetiche del fatidico Cavone, il canyon pugliese intriso di storie di briganti e svaligiamenti di carrozze. Me li immaginavo quei brigantacci, nelle atmosfere cupe di certe giornate invernali, loro che spuntavano all’improvviso da dietro una roccia, mezzi bendati ad assalire la mia macchinetta nuova color azzurro metallizzato; mi prendeva una certa ansia e allora acceleravo, scalavo marce, sparavo la mia cassetta a mille (la radio non prendeva lì tra le cave!) e mi mettevo a cantare. Neanche un’anima intorno a me, se non qualche gregge di pecore qua e là, e a primavera invece, qualche schiena inarcata e lontana a raccogliere funghi o asparagi o lumache. Mi sentivo sola, sola e indifesa sì, e allora intonavo melodie, a squarciagola nel minuscolo vano della mia Fiat. Mi facevo coraggio così. Così, finché non arrivavo!
Altre volte invece pensavo ‘Mamma, che bello!’ e questo succedeva quando costeggiavo Castel del Monte tutto imbiancato, circondato da nuvole gonfie di pioggia a impastarne la sommità, o dalla nebbia che lo accarezzava inglobandolo nella sua coltre, ma quello era uno spettacolo di pura magia. Una magia solida e accattivante, bello Castel del Monte, fortezza di misteri, ottagono misterioso e solitario, forte della sua storia in mezzo a ettari di terra ruvida, ecco,mi restituiva forza e tenacia. Anche a primavera quella zona del Cavone era uno spettacolo pazzesco: gli appezzamenti dei campi diventavano geometrie naturali e perfette di mille colori lucenti, una coperta patchwork di papaveri da una parte, fiorellini gialli dall’altra, e in mezzo tappeti a distesa, ondeggianti di stipa fluorescente. Natura, profumi, il finestrino abbassato e addosso una voglia pazza di innamorarmi.
Era così allora. Altamura è venuta dopo, insieme alla mille scoperte culinarie. Mi faceva spavento la descrizione della ricetta della famosa pecora alla rizzola, non ho mai voluto assaggiarla, ma il pane, il pane sì, quella mollica gialla aveva e continua ad avere lo stesso profumo che hanno le madri quando nasci, il pane è vita…’ed è più vita ancora se ci metti dentro una fetta di mortadella appena tagliata!’ commentava un mio collega del posto che non amava tanto filosofeggiare e arrivava subito al dunque! E forse un po’ aveva ragione perché il piacere non cerca parola altrove, il piacere semplicemente è!
Così passai a Cassano, quando c’era ancora quel passaggio a livello che mi faceva arrivare a scuola in ritardo. Un terno al lotto! Si chiude? Si apre? Più mille trattori lentissimi che sbucavano a sorpresa da tutte le stradine laterali. Un’avventura di scorci Cassano, l’aria buona, la Piazza, la fragranza del respiro, le pozzanghere luminose di certe giornate primaverili, le immagini di tanti anni di transumanza, la mia, condensate in un momento, irrigate qui e adesso su questi fogli da una luce che solo appartiene ad allora, a quel periodo di riflessi dorati eppure acuminati, pietrosi e sparsi.
Mi resta in bocca un sapore di forno a legna con i carboni ardenti, una serie di dialetti stretti e modi di dire che non ho più dimenticato e che mi accompagnano ancora: a pète a pète se fàsce u paréte; nei muretti a secco si nascondevano i segreti e i silenzi, le sfide di ogni giorno si mescolavano al profumo di grano, all’esistenza e alla storia. Pereti e strade, muretti e percorsi: la gente cammina, cammina tanto in questi posti, ci sono boschi e conifere nella murgia e c’è lo spirito sempre vigile dei viandanti che ci hanno preceduti, anime erranti che trasportano miti e leggende, un Federico II che ogni tanto ritorna tra i campi, con gli scarponi ai piedi e l’incedere maestoso degli imperatori. Poco importa che sia il suo fantasma, o un pastore stanco o un amico compare, si sposta lui dal Cavone a Cassano camminando o facendo l’autostop, predilige le Fiat Uno color azzurro metallizzato e quando scende ringrazia sempre con un inchino. Si inoltra nella Foresta di Mercadante dove c’è il Grande Fragno che gli piace assai perché è forte e robusto come lui, lì si appoggia, depone la corona e si sfrega l’anello di otto petali sulla bisaccia; attraversa viottoli di roverelli e lecci, intona canzoni che dedica alle gazze e alle grondaie. Quando si ritira contento al suo paese non lo riconosceresti mai perché ha la stesso incedere mio e tuo, può essere un forestiero o uno scrittore, un poeta o un guerriero, un insegnante che viaggia o un pensionato ma resta la Murgia il suo Aleph, perché la Murgia resta nel cuore e l’Aleph-come diceva Borges- è il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli. Perché la Murgia è un mosaico, di paesi che sono gusci, per conservare storie e tradizioni che poi diventano nidi. E quei paesi sono anche spine dorsali, che resistono al vento in una erranza di avi e di voci che arrivano da lontano, da una terra che è appartenenza e sale e sudore. Una terra generosa che si chiama Sud, che accoglie il viandante e lo straniero, lo fa sentire a casa tra cose buone e quel magico numero … otto … (reclinandolo) fa INFINITO.

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