Per molti italiani la sola parola “estero” evoca un ideale di perfezione e di efficienza: questa convinzione è così radicata che, recandosi in altri Paesi, si notano solo gli aspetti positivi confrontandoli con quelli negativi dell’Italia. Ma la realtà ha molte sfaccettature e dipende da come la si guarda.
In realtà, a mia sommessa opinione, l’esterofilia italiana trova le sue radici nell’inguaribile provincialismo degli italiani: il provinciale è un insicuro, dubita della propria identità, ammira e spalanca le porte a tutto ciò che “viene da fuori”. Ora, però, questa esterofilia, sapientemente alimentata dalla propensione – tutta italiana – a lamentarsi sempre e di tutto, ha raggiunto livelli allarmanti poiché incoraggia i nostri giovani a lasciare l’Italia facendo loro credere che all’estero troveranno finalmente l’affermazione professionale auspicata: il che – per carità – avviene ma non sempre come si potrebbe, erroneamente, credere. In Italia si denuncia spesso la “mancanza di meritocrazia” e, nell’immaginario collettivo, questa carenza è associata – non sempre con ragione – a corruzione e nepotismo. Ma occorre sapere che la tanto invocata meritocrazia ha dei risvolti che gli italiani ignorano.
All’estero, infatti, non esiste il concetto di ” posto fisso “: è facile ottenere un contratto a tempo indeterminato perché è altrettanto facile essere licenziati. Nessun giudice interviene per reintegrare il lavoratore, a meno che possa dimostrare di essere stato licenziato per motivi etnici, religiosi o di genere. Il concetto di meritocrazia all’estero significa dover essere sempre i migliori, non potersi permettere errori o periodi di stanca, non anterporre mai esigenze personali a quelle professionali.
I media nostrani ci raccontano storie a lieto fine di accademici e lavoratori altamente qualificati i cui talenti, sottovalutati in Italia, sono stati invece riconosciuti all’estero e lautamente ricompensati con incarichi e stipendi prestigiosi. Ma, a fronte di questi rari casi, ci sono migliaia di giovani emigranti, con un titolo di studio in tasca, per i quali lasciarsi dietro l’Italia non vuol dire iniziare una nuova avventura ma solo passare da una precarietà all’altra, continuando lontani da casa la lotteria di lavori temporanei e non qualificati, retribuiti poche sterline l’ora, che finiscono in gran parte per alloggi in abitazioni fatiscenti, pagati a peso d’oro. Nel nostro Paese, invece, spesso non si trovano camerieri perchè bisogna lavorare il sabato e la domenica.
All’inizio il profumo della novità nasconde ciò che gli occhi non vogliono vedere e tutto sembra bello, anzi bellissimo, tutto perfetto e tutto “civile”. Non vedi il traffico, anche se c’è, non ti accorgi che la metro è in ritardo, anche se sono venti minuti che aspetti, non senti la puzza della spazzatura anche se ci sono zone di Londra dove i sacchi neri restano per strada anche 4 giorni, non vedi gli ubriachi per strada perchè ti sembrano solo ragazzini che si stanno divertendo, non vedi le prostitute in minigonna ai lati della strada perchè le scambi per ragazze che hanno solo caldo ( a dicembre con il ghiaccio per strada ), non ti accorgi di chi ti salta davanti mentre fai la fila al supermercato perchè provi piacere nel fare qualcosa di buono nel Paese dove tutti sono buoni e allora lo fai passare e non dici nulla perché forse va di fretta. Non dici nulla, non ti accorgi di nulla perchè non stai ” vivendo la quotidianità “. Sei cieco perché per anni hai guardato a quel Paese come il posto dove andare per cambiare vita, hai ascoltato tutti gli amici che tornavano dalle vacanze (da qualsiasi posto del mondo) e ti dicevano che ovunque si sta meglio che in Italia e allora tu ci credevi davvero e quando i tuoi genitori felici e tristi per un figlio che parte ti salutavano guardandoti negli occhi e dicendoti “prima o poi ritornerai” pensavi quasi con un’aria di sfida “no, non tornerò”.
Passano i primi mesi, i primi anni e quasi per magia quella patina che abilmente nasconde il brutto comincia a svanire: allora ti rendi conto che la realtà è tutta un’altra storia. E così, le gambe delle ragazzine sudamericane seminude che girano di notte cominciano ad assumere il loro vero volto, il signore che fa la fila pazientemente dietro di te ma poi con un guizzo improvviso ti supera per salire sull’autobus prima di te scatena il tuo giusto risentimento, ti rendi conto che i ragazzi che il sabato sera, dopo essersi imbottiti di alcol, camminano a piedi nudi sull’asfalto di Oxford Street e vomitano ad ogni angolo, non si stanno solo divertendo ma sono quasi in coma, i vari barabba che si svegliano la mattina per tirare fino a sera truffando la gente non sono solo attrazione turistica ma sono una brutta realtà dei quartieri di Londra, compresi borseggiatori e simili (ebbene sì: i borseggiatori e i delinquenti esistono anche lì).
E allora passa ancora un po’ di tempo e cominci a pensare e ancora a pensare. E io ho pensato e mi sono chiesto dove sia finito quel senso di civiltà che avevo adocchiato quando tutto contento ero arrivato – qualche decennio fa – la prima volta a Londra, dove sia finito il rispetto per le leggi che mi sembrava così imprescindibile per una società ” funzionante “, una società dove non credevi esistessero le truffe alle assicurazioni e i furti negli appartamenti con omicidio, una nazione dove non credevi potessi trovare a dirigerti l’ignorante figlio o nipote del Professore Pinco Pallino, che non era stato nemmeno sottoposto a regolare colloquio. Ebbene tutto ciò accade anche nell’ ” Eldorado “.
Allora capisci che l’Italia è davvero il Bel Paese e che il vero coraggio è rimanere qui e lottare per renderlo migliore. Dalla quotidianità, appunto.
© Riproduzione riservata