Un paese vicino Roma, un piccolo alberghetto di periferia con una sala riunioni, niente riflettori accesi sulla Capitale, sui grandi teatri, solo la voglia di capirci qualcosa in più, di confrontarci su un cancro – perché è un cancro – che si stava mangiando voracemente, moderno Pantagruel, interi pezzi del nostro Paese.
Un tavolo in fondo alla sala, noi giovani, inesperti ma barbuti magistrati, ad osservare i vocianti colleghi di tutta Italia salutarsi affettuosamente.
La voce si rincorreva sin dalla mattina, forse viene Giovanni Falcone. Forse. Non poteva dare certezze, non poteva dare punti di riferimento. Una vita in forse. La sua unica certezza, l’amore per la sua terra, la Sicilia, dove tornava sempre. L’unica debolezza.
Una scossa elettrica nella sala, era entrato lui e ce ne accorgemmo soprattutto dal sorriso di bambino felice che leggevamo sul volto dei colleghi, dei suoi amici.
Eravamo lì, imbarazzati, impacciati quando lui si avvicinò al nostro tavolo, ci strinse la mano e ci disse “Piacere, colleghi, sono Giovanni Falcone!”.
Poi disse qualcosa sulla gioia di vedere partecipare non solo quei vecchioni dei suoi amici ma anche facce nuove.
Un brevissimo contatto, poche parole di circostanza, ma dette schiettamente, guardandoti negli occhi, sempre attenti, sempre vigili, sempre esaminatori, subito pronti a valutare: amico o nemico?
In sala riunioni affrontò subito l’argomento, senza mezze misure, ribattendo colpo su colpo le osservazioni, le critiche, dubbi e perplessità che la sua proposta legittimamente sollevava: era una rivoluzione quella che lui aveva in mente, una nuova potente arma che scardinava anche vecchi equilibri. Un’arma che è stata poi realizzata ma non compiutamente.
Io lo ricordo così. Un uomo. Un Uomo di Stato.
© Riproduzione riservata