Si può ipotizzare una dimensione diversa da quella descritta da Calvino in questo passaggio de “Le città invisibili”? Può davvero esistere un luogo dove incontrarsi diventa possibile, pur nelle differenze, a dispetto delle diffidenze?
Giorni fa mi aggiravo curiosa per i suoli inesplorati dell’ex Caserma Rossani, riflettendo su quanta valenza mentale e fisica possano occupare certi spazi abbandonati nei nostri immaginari e nella nostra voglia di progettualità, soprattutto allorquando quegli spazi respirano la possibilità di trasformarsi in territori di avvicinamento, in terreni di condivisione e messa in gioco (e anche in discussione) della conoscenza della dimensione individuale e sociale. Tutto quello che si sta muovendo in questi giorni intorno e all’interno dell’area dell’ex caserma (sopralluoghi, passeggiate esplorative, narrazioni letterarie e fotografiche, cortei) non è che la testimonianza di una strenua volontà. Quella, a mio avviso, di porsi come soggetti partecipativi di una geografia del cambiamento, che va ben oltre la logica (giusta e necessaria) della riqualificazione degli spazi locali. Qui si legge di più! Si legge un bisogno di reciprocità, di stili di vita e di comportamenti, di multiculturalità, di tensione trasformativa della nostra percezione dello spazio. Qualcosa che affonda le sue radici, o meglio i suoi pilastri, in una dimensione più relazionale, un’urgenza desiderante e trasformativa delle condotte, delle dinamiche, dei paesaggi interiori, dei luoghi ‘altri’ (da quelli codificati e omologati del quotidiano) che questa città possiede ma con i quali, a volte, ha timore di confrontarsi in virtù di una logica di chiusura, di paura del nuovo o del diverso. Tornando a Calvino, se nelle Città Invisibili non si trovavano città riconoscibili ma piuttosto “immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”, perché non provare a coltivare realisticamente questa idea di città/spazi possibili, rivisitabili, appetibili?
Come? Generando un ambito di ‘neutralità’ che restituisca senso al concetto di spazio pubblico inteso come spazio della creatività e della condivisione, nell’ottica di geografie più ampie, che abbraccino le esperienze di tutte e tutti, per creare un laboratorio attivo in cui chiunque possa trasmettere le proprie energie per costruire reti, e non per ergere solo muri.
Credo che se la retorica impone censure, noi dobbiamo essere in grado di rispondere con un immaginario che parla invece di alternativa, di socializzazione, di propensione friendly da costruire insieme in uno spazio condiviso e condivisibile da cittadine/i con esigenze e valori diversi ma non per questo non comunicanti.
Che non sia anche questo ciò che intendeva F.L. Wight quando parlava di ‘estetica organica’? Perseguire e sperimentare un’idea che ci porti a ripensare lo spazio vuoto come zona aperta di relazione è un’azione possibile. Aprirsi a ipotesi di mappatura per nuove interconnessioni diventa così non solo una prassi necessaria ma anche un atteggiamento di vita, auspicabile per rinnovarsi sempre, in un confronto dinamico e dialogico tra sé e gli altri. Ho parlato già in altri articoli del book-crossing, riconiamo dunque sullo stesso modello il concetto dell’idea-crossing, del bene comune-crossing e di tutto ciò che si può considerare riconvertibile, recuperabile e ‘attraversabile’, nonostante sia ritenuto da alcuni statico e intangibile.
E’ mia abitudine, in generale, cercare nei libri conferme e certezze rispetto all’universo-mondo! Di M. Yourcenar, mi sovviene questo passaggio, quasi un monito rispetto a quanto finora sostenuto: Bisogna…”perseguire l’attualità dei fatti, cercare di rendere a quei volti la loro mobilità, l’agilità della cosa viva, e dunque (…) eliminare finché è possibile tutte le idee (preconcette aggiungo io!) e i sentimenti che si sono accumulati, strato su strato, tra quegli esseri e noi.”
Non si può che orientarsi verso una politica di ricostruzione e riciclo piuttosto che di demolizione, bisogna prenderne atto, un po’ come i personaggi di R. Carver, il quale, alla domanda “i suoi personaggi cercano di fare le cose che contano?”, rispondeva “credo ci stiano provando”!
The Housemartins ‘Build’
R. Carver ’Cattedrale’
P. Roth ’Pastorale Americana’
B. Hrabal ‘Spazi vuoti’
I. Calvino ‘Le città invisibili’
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