“All’editore del quotidiano l’Edicola del Sud sono stati sufficienti venti giorni di pubblicazioni per licenziare il collega Paolo Magrone con la motivazione del mancato superamento del periodo di prova, che a norma di contratto deve essere di tre mesi. Poche ore prima di ricevere la comunicazione dall’azienda, il collega Magrone aveva sollevato questioni inerenti il rispetto del contratto nazionale di lavoro giornalistico, con particolare riferimento agli orari di lavoro, all’arco di impegno giornaliero e all’elezione del comitato di redazione, organismo sindacale di base dei giornalisti, tuttora mancante nel quotidiano. Le Associazioni regionali di Stampa di Puglia e di Basilicata, d’intesa con la Fnsi, esprimono solidarietà e vicinanza al collega Paolo Magrone, al fianco del quale si schiereranno in ogni sede. Allo stesso tempo, intraprenderanno le azioni necessarie per verificare il rispetto delle leggi e del contratto nazionale di lavoro giornalistico. Nessuna iniziativa editoriale può prescindere dal riconoscimento di diritti costituzionalmente garantiti a tutti i lavoratori”.
Questo il comunicato di Assostampa datato 14 dicembre u.s.
Dopo una settimana la direttora dell’Edicola del Sud, Annamaria Ferretti, risponde con un post sui social; un messaggio molto chiaro nel quale consiglia ai colleghi di verificare sempre la fonte delle notizie e, come prescritto dall’abc della professione, di sentire sempre la controparte chiamata in causa prima di partire in quarta con comunicati e reprimende.
“Si può non essere d’accordo, ma le minacce sono altro. È da qui che voglio partire per rivolgermi al collega che (per sola mia decisione) ho allontanato dalla Redazione e ai giornalisti che, prima di scrivere ed assumere posizioni ufficiali riguardo al suo presunto licenziamento, hanno deciso che la campana da sentire fosse solo una: la sua. Quando invece, nella settimana appena trascorsa, la sola pagina triste di questa mia nuova storia professionale che è #ledicoladelsud, l’ha scritta proprio lui: il collega… scollegato. Convincendomi del fatto che è ancora molto difficile riconoscere pienamente ad una donna il ruolo di leader e che, quando il contraddittorio si accende (nello specifico parliamo di mere contestazioni di comportamento e di merito che la sottoscritta gli ha fatto notare), l’innaturale in cui si scade è l’aggressione e la minaccia. Fa niente che mentre urli e ti scagli contro la tua direttora puntandole il dito indice in faccia la stanza a vetri non nasconda all’intera Redazione uno spettacolo indecoroso. Fa niente che la tirocinante che è ad un palmo da te, inerte testimone, sia terrorizzata e cerchi soccorso negli sguardi dei presenti. Fa niente per il collega, ma non per me. Egli non è stato licenziato. Egli non ha -semplicemente- superato il periodo di prova stabilito dal Contratto nazionale di lavoro dei giornalisti e il suo comportamento violento ha aggiunto un’aggravante pesante alla valutazione complessiva del suo lavoro. Sproloquiare di azioni infondate significa non sapere di cosa si parla. E, la nostra professione lo impone, prima di darne notizia o di emettere giudizi è regola fondante sentire la controparte. Naturalmente, quando si tratta di questioni che si legano ad atteggiamenti violenti, l’unico modo per reagire (come ho sempre detto) è denunciare. Ed io l’ho fatto, nelle sedi opportune. Le minacce e le violenze non vanno mai nascoste ed ignorate, ma vanno sempre raccontate con fermezza, perché sono la morte dei rapporti interpersonali, professionali e del dibattito pubblico. Offendono la dignità. Tutti dovrebbero saperlo, innanzitutto le giornaliste e i giornalisti perché non si può invocare il rispetto dei diritti a senso unico. No, proprio non si può. Ed ora torno a lavorare”.
A voi, lettrici e lettori, il giudizio di quanto accaduto.
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