Ecco il vero senso di quel che Natalie Goldberg esplicitava con la sua definizione di scrivere in presenza, cioè nella piena consapevolezza di quello che accade dentro di noi, nel qui e ora, in quell’attimo passeggero e impermanente che ci attraversa, come la vita stessa. Un attimo, che per sua natura, non può che risultare mutevole, e dunque degno di essere raccontato affinché la propria sintassi interiore diventi strumento di conoscenza in primo luogo per se stessi. Sono queste le immagini che cerco di trasferire quando tengo corsi di scrittura creativa nelle scuole; in questo periodo sono alle prese con delle brillanti ragazzine (più due maschietti!) di scuola media: praticamente un esercito di giovani libellule, con qualche anno in meno rispetto alle ragazze e i ragazzi con cui ho quotidianamente a che fare nella scuola in cui insegno, e dunque per questo, mi ero fatta l’idea che fossero un po’ meno disincantate rispetto al mondo e a quel che accade intorno a noi.
La verità? Stanno scrivendo delle cose intensissime, che partono dalla realtà e poi nel sogno e nella magia cercano rifugio, perché – spiegano loro- quando si sentono ‘rincorse dal grigio delle ombre’, risulta più facile rifugiarsi nella fantasia, nei diari e dunque nella scrittura. Ecco aprirsi allora un mondo parallelo che può costituire materia di salvezza e intima contentezza, cura di sé, protezione ma anche difesa che si cristallizza in una sana abitudine: scrivere, scrivere, scrivere! Perché (come diceva Roland Barthes) ‘Scrivere è come giocare col corpo della madre’ e affina la capacità di accogliere l’universo tuo e quello degli altri, di starlo a sentire. E non è vero che manca il tempo, perché per dare forma al proprio sentire, così come per leggere (azione intrinsecamente legata a quella dello scrivere), il tempo non deve mancare mai!
S’incuriosisce il mio giovane pubblico di promettenti scrittrici e scrittori, quando parlo delle abitudini di scrittori famosi: Lewis Carroll e Hemingway scrivevano in piedi, Proust scriveva a letto in una camera rivestita di sughero per attutire i suoni, Nabokov davanti a un leggio su cartoncini e Trollope teneva d’occhio l’orologio perché voleva terminare una pagina ogni 15 minuti. Ma il più invidiabile era certamente G.Green, che si alzava presto, scriveva 500 parole, e poi terminato il lavoro della giornata, faceva colazione. Al di là delle abitudini esteriori e del tempo dedicato, mi accorgo che la maggior parte delle domande che mi si rivolge nelle varie occasioni in cui vengo invitata a parlare di didattica della scrittura creativa, riguarda quel che accade nella testa di chi scrive un romanzo o una storia.
Insegnare che scrivere significa abitare altre vite, fare mondo, sviluppare compassione sono temi ai quali dedico molto tempo durante i miei corsi di scrittura creativa, ma accanto a tutto questo, e oltre all’inevitabile rigore e lucidità che accompagnano la scrittura, sottolineo sempre che, prima di tutto, per scrivere bisogna provare desiderio e che si deve poter scrivere per dire quello che si vuole, ma mettendoci il più possibile l’anima, abbandonandosi all’andirivieni del pensiero e attingendo nel profondo per afferrare l’ineffabile.
Solo così la scrittura può farsi anche strumento del coraggio di vivere pienamente qualunque momento e situazione, perché, come diceva Natalie Goldberg ‘questo è creare la nostra pazzia. Il baratro tra l’amore sviscerato che nutriamo per il mondo quando ci sediamo a scriverne…’
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