Sono partite questa mattina da Bari alla volta del Kennedy Space Center della Nasa a Cape Canaveral, in Florida, le cellule ossee che saranno trattate nello spazio e poi studiate da un gruppo di ricerca dell’università di Bari.
L’esperimento, il cui avvio è in programma il 2 aprile con il lancio della capsula Dragon, resterà in orbita per 21 giorni a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Le cellule ossee saranno trattate con la molecola Irisina che, stando agli studi del gruppo coordinato da Maria Grano, ordinario di istologia presso la scuola di Medicina dell’Ateneo barese, è potenzialmente capace di prevenire e curare osteoporosi e atrofia muscolare.
L’importanza dell’esperimento deriva dal fatto che tra gli organi che, più risentono degli effetti della permanenza nello spazio, sicuramente l’apparato muscolo-scheletrico è quello più colpito. La perdita di massa ossea a cui vanno incontro gli astronauti dopo 1 mese di permanenza nello spazio è pari alla perdita ossea a cui vanno incontro le donne in post-menopausa in 1 anno. Lo spazio si può, infatti, definire come una “macchina del tempo”, in cui i processi di invecchiamento sono accelerati e rendono le cellule più “anziane” in pochi giorni. Pertanto, lo Spazio offre agli scienziati, in un tempo breve, la possibilità di valutare le alterazioni molecolari, che sulla Terra si verificano molto più lentamente durante l’invecchiamento e, nello stesso tempo, è possibile testare l’azione di molecole a scopo terapeutico.
Il ruolo di Irisina sulla massa ossea e muscolare ha rappresentato una recente scoperta del gruppo di ricerca coordinato da Maria Grano e i risultati sono stati oggetto di concessione di brevetto nazionale ed internazionale. Lo studio, durato circa sei anni, ha rivelato che la somministrazione di Irisina, molecola prodotta dal muscolo durante l’esercizio fisico, è in grado di prevenire e curare lo sviluppo di osteoporosi e atrofia muscolare in modelli animali osteoporotici. In altre parole Irisina è capace di indurre formazione di nuovo osso e rende lo scheletro più resistente alle fratture.
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