‘…credo in quella perfezione, mi sento al sicuro e senza più responsabilità, quasi la bellezza del mondo visibile impedisca che mi accadano delle brutte cose.’
Andorra di Peter Cameron
Ho pensato che prima del climax divampante di quest’agosto radicale e denso, più che un nuovo racconto estivo avrei voluto scrivere qualcosa che fosse non solo un arrivederci a settembre ma anche un augurio; tuttavia non riuscivo a trovare le parole e tutte le immagini che si rincorrevano nella mia testa mi apparivano troppo razionali e geometriche già in partenza, insomma non riflettevano esattamente ciò che avrei voluto dire. Cercavo un’idea più libera da scansioni, più straripante. Qualcosa che riuscisse ad evitare di dettarmi i tempi del pensiero, qualcosa che esprimesse un rallentamento fino a fermarsi, una visione d’invulnerabilità e di orizzonte come quando il cielo diventa mare e quella linea che li separa diventa talmente sottile da scomparire. Così, mentre meditavo davanti alla pagina bianca, tanto amica e al contempo tanto intimidatoria nel suo candore estremo e condensato, mi sono soffermata con lo sguardo sulla figura della mia bimba, che a poca distanza da me, giocava tutta assorta in un dialogo interno e intimo con una delle sue bambole. Un’immagina estatica e composta, di quelle che vorresti fermare nel tempo, sospendere e contemporaneamente lasciar scorrere entrandovi per assecondarla, così che i suoi flutti non si scontrino con la corsa degli istanti, né con l’ossessione umana di convogliarne l’energia e la dolcezza, per trattenere ciò che è troppo immenso e che può straripare. Perché quando hai soli nove anni e un’intera giornata a tua diposizione, quella giornata equivale a migliaia, migliaia di vite da adulto, per il solo fatto che è una giornata immensamente pura, completamente aperta, che non subisce barriere. Perché è una giornata tutta intera davvero, senza confini, senza un paragone col quale misurare le distanze ma piena soltanto dell’aprirsi delle albe, come fossero stanze pronte per essere abitate dalla fantasia e dalla spensieratezza, affacciate sulla soglia di un altro incominciare. Un prepararsi a nuovi ardori, a nuovo vento e nuvole che vagano e si sfilacciano, che prendono forme diverse, ora di draghi e zebre, poi di murene e cattedrali e in ogni dove si sospingono e nessuno osa interrogarle sulla sorte dell’indomani. Perché quel loro movimento è una festa gentile, vestita di mille colori, come l’arancio, il rosso o il viola, come i capelli multicolori della bambola coccolata da mia figlia, come il bianco latte dei suoi sorrisi immensi e soddisfatti mentre adesso la guardo. Lo stesso bianco dei gigli, che è chiarezza dei segni in attesa di manifestarsi, senza che il pensiero debba immergersi in interpretazioni esterne. Ecco cosa penso: sento che in istanti così esplosi i sentieri interni possono accendersi di cicale impazzite, suoni di dentro che dicono abbandonati e salvati. Questa è l’estate per me, questo è l’augurio che ti rivolgo mio amato lettore, mia amata lettrice. Abbandonati e salvati! Come i bimbi insegui con lo sguardo gli stormi che fanno disegni sublimi all’orizzonte, che si muovono come un unico corpo e diventano nuvola, scia di fumo, sacca che si rovescia in mille grani. Segui i gabbiani e le upupe, e poi i gruccioni e le pispole. Resta così, con gli occhi spalancati a guardare il cielo, segui le forme delle nuvole su di te, accarezzane col tuo dito il perimetro perché quel cielo ti appartiene come l’estate che si allarga a dismisura per abbracciarti e regalarti un po’ di sollievo. Adesso.
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