“Per la prima volta avevo dato loro tutto quello che non avevano avuto nelle loro vite: calore, comprensione, importanza”.
Queste le terrificanti parole dell’ideatore, un giovane studente russo di psicologia, della Blue Whale Challenge ovvero la competizione della “balena blu”, riferite ai ragazzi che adescava e accompagnava, tra le varie prove, fino alla morte. La Blue Whale Challenge è un assurdo “gioco” pensato per la sua diffusione in Rete, mediante Instagram, WhatsApp e Facebook e per infondere, nelle menti di alcuni ragazzi di tutto il mondo, la convinzione, attraverso un raccapricciante e folle rituale psicologico, che l’unica via di uscita sia la morte, così come fanno le balene blu che, per andare a morire, si spiaggiano.
Si tratta di una specie di protocollo che sta scatenando il panico tra le famiglie, costituito da cinquanta prove estreme che tutti i partecipanti devono portare a termine. Il tutto per una durata di cinquanta giorni.
A dettare le regole del “gioco” sono persone che si definiscono “curatori”: il loro compito è quello di guidare i ragazzi nelle varie prove, fino all’ultima, la più terribile che, per giunta, viene fatta filmare, per poi farla mettere in Rete.
Alcune prove da superare sono: provocarsi tagli su varie parti del corpo, svegliarsi alle 4:20 di mattina, camminare sui binari, guardare video psichedelici e horror per tutto il giorno, non parlare con nessuno per un giorno intero, salire su di un ponte sostando sui bordi e mettersi sul cornicione di un tetto con le gambe a penzoloni.
A quanto riferiscono i genitori dei ragazzi, che hanno partecipato alla Blue Whale Challenge, i loro figli non vivevano situazioni problematiche a livello familiare o sociale e non mostravano particolari condizioni di disagio. Il fatto che sgomenta è che nessuno dei genitori e degli insegnanti dei ragazzi coinvolti, durante i fatidici cinquanta giorni, è sembrato accorgersi di nulla.
In questo periodo ci si sta interrogando, così come succede ogni qualvolta viene lanciato un allarme sociale, su come difendersi dalla Blue Whale Challenge. Ci si chiede, infatti, se sia meglio parlare della Blue Whale Challenge con i propri figli e con i propri alunni, se cercare capire come vivono questo fenomeno i ragazzi o far finta di nulla, se può essere utile farsi spiegare da loro stessi di che cosa si tratta e se promuovere campagne di sensibilizzazione di tipo informativo nelle scuole.
La cosa più importante per genitori e insegnanti è quella di dare la colpa unicamente alla Rete per sfuggire, forse, alle proprie responsabilità.
E’ fondamentale parlare con i propri figli e alunni non solo della Blue Whale Challenge e, non solo in questo periodo, che ci vede terrorizzati da questo fenomeno, ma ogni singolo giorno.
Bisognerebbe, da parte dei genitori, ascoltare di più o ragazzi, spegnere la televisione durante i pasti, cercando di dare valore a quel tempo trascorso insieme, in modo da parlare e raccontarsi la propria giornata.
Anche gli insegnanti rivestono un ruolo chiave e potrebbero, magari, impiegare anche un’intera lezione, che si tratti di matematica, fisica, italiano per poter comprendere come “si sentono” i propri alunni, sacrificando magari materie che, seppur fondamentali, valgono certamente meno della loro vita.
Quella che stiamo vivendo sembra essere una psicosi collettiva; tuttavia esistono, da molti anni e ancor prima che emergesse il fenomeno Blue Whale Challenge, i siti web pro-anoressia e pro-bulimia, creati dai ragazzi stessi, in cui si incitano a non mangiare fino allo sfinimento o a mangiare e provocarsi il vomito fino allo stremo. Esistono anche siti e blog in cui, a vicenda, ci si incita a provocarsi tagli su tutto il corpo.
Eppure, in questi casi, non c’è nessun “curatore” ad istigare i ragazzi a farsi del male.
Probabilmente, quello che accomuna questi fenomeni, che si chiamino Blue Whale, siti pro-anoressia, siti pro-bulimia o siti autolesionistici, è un disagio di fondo che, spesso, caratterizza l’adolescenza. Tale disagio, se non intercettato in tempo da genitori e insegnanti, potrebbe assumere risvolti patologici anche gravi e, soprattutto, se trascuriamo di sintonizzarci emotivamente con i ragazzi, tra qualche anno o forse anche meno, quella che oggi chiamiamo Blue Whale Challenge, potrà cambiare solo le sue caratteristiche e non chiamarsi più così ma continuerà, inevitabilmente, ad esprimere il disagio muto che si trovano a vivere i ragazzi di oggi.
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