Sul Bollettino economico della Banca d’Italia si legge che ” dall’inizio del 2015, quando sono entrati in vigore i provvedimenti di riforma del mercato del lavoro ( Jobs Act ) e gli sgravi contributivi sulle assunzioni previsti fino al 2016, l’occupazione è aumentata di circa 900.000 persone “.
Sicuramente è una buona notizia: il numero di persone che hanno un’occupazione è finalmente tornato ai livelli precedenti la cosiddetta ” Grande Recessione “. E – inevitabilmente – spuntano i ” benaltristi ” ed i ” trionfalisti “: tanti guardano a questo dato con sufficienza e sospetto, contestandone il valore, perchè ” ben altro ” ci vorrebbe, è tutta occupazione precaria, sono giovani sfruttati con basse retribuzioni; altrettanti trionfano per l’ottima performance occupazionale dell’economia italiana. Ebbene se guardiamo i numeri, per una volta le due ” fazioni ” sono – inconsapevolmente – d’accordo ( non glielo facciamo sapere ).
Tra il 2015 ed il 2017, mentre gli occupati crescevano del 4,1 per cento, il Pil aumentava del 3,4 per cento. Quindi il numero di occupati è aumentato molto più di quanto sarebbe giustificato dalla parallela evoluzione dell’attività economica. Sotto questo profilo il cosiddetto ” rendimento occupazionale ” della crescita 2015-2017 è davvero eccezionale, e non può non essere interpretato come risultato delle politiche di riforma del mercato del lavoro e di sgravio contributivo.
Anche la composizione dell’occupazione è migliorata, con un aumento del lavoro dipendente ( più un milione e 100 mila, di cui 500 mila a tempo indeterminato e 600 mila a termine ) e una riduzione della ” finta ” occupazione autonoma nascosta dietro i contratti di collaborazione (meno 200 mila), con un aumento del lavoro regolare e un crescente ancoraggio della nuova occupazione al sistema della solidarietà intergenerazionale attraverso il versamento dei contributi previdenziali e l’acquisizione di diritti pensionistici.
Vediamo che le ore lavorate sono aumentate meno delle persone occupate e restano ancora al di sotto del livello pre-crisi. Ciò accade perché una parte della nuova occupazione ha orari di lavoro ridotti ( part time ) e il sistema sta distribuendo fra più persone la crescita del monte ore. Si tratta probabilmente di un effetto della finestra temporale limitata a un triennio degli sgravi: le imprese hanno assunto più persone di quelle necessarie alle esigenze produttive presenti, creandosi una riserva di forza lavoro per il futuro. La conseguenza è che il rendimento occupazionale della crescita economica è destinato a ridursi, e ciò sembra già in atto, come mostra il recente dato Istat sulla lieve riduzione dell’occupazione nel mese di dicembre 2017.
Se l’occupazione cresce più del prodotto, però, questo significa che la produttività del lavoro in media diminuisce. L’alto ” rendimento occupazionale ” della crescita 2015-2017 è stato, cioè, ottenuto al costo di una riduzione della produttività, la cui dinamica in Italia è molto bassa, al di sotto di tutti gli altri Paesi sviluppati, da circa vent’anni. Qui emerge una forte divaricazione fra industria e servizi. Nell’industria la produttività è aumentata allo stesso ritmo della produzione e l’occupazione è cresciuta poco. Nei servizi invece l’occupazione è cresciuta più della produzione e la produttività si è ridotta.
Una quota della nuova occupazione registrata nell’ultimo triennio si colloca, quindi, nei segmenti produttivi del terziario a basso valore aggiunto per occupato. Può trattarsi in parte di emersione di lavoro in precedenza non regolare ma è inevitabile dover considerare che in questi pezzi di sistema, a bassa produttività e struttura d’impresa molto frammentata e talvolta arretrata sul piano della tecnologia, della dimensione e dell’organizzazione, la nuova occupazione incontri basse remunerazioni, orari corti, elevata flessibilità. Ciò non è un effetto del Jobs Act ma della debolezza della struttura produttiva, soprattutto nel terziario tradizionale a elevata intensità di lavoro ( commercio, turismo, attività professionali, servizi alla persona, servizi pubblici ).
Questo il primo dato, quindi: la “qualità” dell’occupazione non dipende dalle leggi sul mercato del lavoro ma dalle caratteristiche della struttura produttiva e d’impresa.
Il secondo fattore da analizzare riguarda la crescita stentata dell’Italia. Una crescita intorno all’1,5 per cento, come quella stimata per il 2017, può sembrare buona, dopo anni di crisi e crescita zero. Ma è sufficiente per generare tanti nuovi posti di lavoro o risolvere il problema del debito pubblico ? La risposta è no. Purtroppo in questo momento storico la crescita in Italia è ancora troppo fiacca: la ripresa di cui parlano i politici è reale, specialmente nei settori dell’export, ma l’Italia resta il Paese con minor crescita del PIL in Europa. La crescita è così lenta da non farci percepire nulla di ciò che, normalmente, viene percepito in un Paese che attraversa un periodo di espansione robusta e continuativa. Una crescita troppo lenta non innesca una forte domanda di nuove assunzioni e non fa aumentare quella ” cosa ” così bistrattata che si chiama produttività. Ciò vuol dire che milioni di italiani non stanno realizzando alcun miglioramento nelle loro condizioni economiche.
Perché l’Italia non cresce di più? I motivi per cui l’Italia non cresce di più sono molteplici, ma la spiegazione più semplice è che, a differenza di altri grandi Paesi, e grandi economie come la Germania e il Regno Unito, l’Italia non ha realizzato un vasto programma di riforme dell’economia negli ultimi trent’anni. L’Italia cresce così poco perché, nonostante la notevole bravura di imprenditori e lavoratori, la sua economia ha una struttura ancora inefficiente, soprattutto se paragonata alla Germania o al Regno Unito. Nel XXI secolo, nel mondo globalizzato, l’investitore che crea posti di lavoro può decidere dove investire e, naturalmente, tende a scegliere quei Paesi dove il costo del lavoro è minore, la burocrazia e il sistema legale sono più efficienti e semplici.
L’Italia, in altre parole, non riesce a generare un ritmo di crescita più in linea con la media europea, che nel 2017 è stato vicina al 2,4 per cento, a causa di una serie di impedimenti, vincoli, ostacoli spesso creati da noi stessi. L’economia italiana non cresce di più per le tante zavorre che le impediscono di muoversi e se, inoltre, quel poco che riescono a guadagnare gli italiani viene tassato fino all’inverosimile, è facile capire perché tanti di loro si sentano tartassati e siano giustamente arrabbiati. E non sorprende che, agli occhi di una fetta consistente della popolazione, l’evasione fiscale non rappresenti tanto un reato quanto la reazione allo Stato che impone ai suoi cittadini delle condizioni intollerabili. Senza considerare gli effetti della corruzione che rallenta la crescita, distorce il funzionamento del mercato libero e, alla fine, ci impoverisce. Una situazione che rende imprevedibili i processi decisionali, mina la certezza del diritto e disincentiva gli investimenti, e che favorisce l’adozione di politiche pubbliche piegate a interessi particolari invece che collettivi.
Una situazione tragica, visto che l’Italia è una nazione piena di energia e dinamismo, di gente che lavora sodo. Nonostante le tante ingiustizie e un sistema squilibrato, l’Italia rimane un Paese che riesce a sfornare eccellenze nei settori della siderurgia e della metalmeccanica, in quello manifatturiero e automobilistico, nell’industria alimentare, nel campo della moda, del design, dei servizi, oltre che nella produzione delle macchine utensili, fino alle industrie che si occupano di innovazione tecnologica e di ingegneria di precisione. Il vero miracolo italiano è, però, che questo Paese, malgrado tutti i problemi e le zavorre, riesce a essere la terza economia europea e la seconda potenza manifatturiera dopo la Germania.
Se l’Italia riesce a raggiungere questi risultati ” nonostante tutto “, si può ben immaginare cosa potrebbe diventare con una burocrazia efficiente e tasse più basse, e delle regole chiare per tutti.
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