31 Maggio 2023 - Ore
De-liberatamente

Mon-do: domanda e risposta

A volte ci sembra talmente ovvio e naturale il nostro far parte del mondo in maniera attiva e costante

A volte diamo per scontato, il dovere/dono che abbiamo di essere sempre presenti a noi stessi, consapevoli di ogni piccolo gesto e parola. A volte ci sembra talmente ovvio e naturale il nostro far parte del mondo in maniera attiva e costante. Forti della nostra memoria, percorriamo la vita facendo slalom tra idee e concetti, parole e pensieri che si formano di continuo, lievi o più pesanti e ostinati a seconda delle situazioni, in una dimensione costante di erranza fisica e spirituale (non in senso religioso) ma proprio semplicemente mistico per il fatto che noi siamo e che ci siamo, ognuno di noi a proprio modo. Pensavo queste cose ieri sera di ritorno dal cinema; non era solo una riflessione sul film che avevo visto (‘Still Alice’ parla di Alzheimer precoce, una patologia che molti della mia generazione conoscono purtroppo per averla vissuta attraverso un parente o un genitore in quel disgregamento progressivo che mangia l’anima e la scheggia fino a renderla un sacco vuoto, sino a far perdere la dignità e l’amor proprio nella più totale inconsapevolezza). Ma non m’interrogavo sulla storia triste che avevo coscientemente scelto di andare a vedere (masochisticamente lo ammetto) quanto piuttosto sul bene che ne avevo tratto invece, che mi cullava, a quel ripensare alla ricchezza delle nostre esistenze e alla sfida quotidiana che ogni essere umano consegna alle imprese di ogni genere, dalla più piccola alla più meritevole. Ci vogliono un orecchio vuoto e una fame atavica a volte per ricucire la colonna sonora del presente e di un futuro possibile, ma è sempre un lusso poter correre sui binari lunghi dei progetti e delle intenzioni, anche a costo che non s’incrocino mai, ma sempre nell’ottica dell’onestà e della pulizia. Ripenso ad Alice, e alla bellezza calda e suprema di Julian Moore che ne è l’interprete, purtroppo anche nei corpi fatti di anima pura si procede da soli e gli affetti non bastano. Dove si accovaccia in noi il male? E la malattia? Dove si rintana la parola scardinata dal pensiero? Ridotta a retrobottega di gesti meccanici, non può più accudire l’esistenza, non riesce più a riassumerla e si disfa nello spaesamento e nella perdita. Sarà così, sarà che ognuno di noi nel venire al mondo porta davvero nel proprio patrimonio genetico già segnato il tempo di vita, la perdita di un senso o di un organo, la mole di malinconia che nei giorni a venire ci assalirà o la dose di gioia che il nostro cuore trasmetterà? Chissà se le piccole mani che accarezzano il seno materno conoscono sin da quel primo afflato già tutto per poi pian piano dimenticarlo crescendo. Nell’anfratto che s’incunea tra l’esistere e l’essere, una domanda si riaffaccerà sempre, costante come un refrain universale: perché siamo al mondo, perché siamo al mondo…In giapponese mon-do significa domanda e risposta, e a me piace accostarmi a lingue altre dalla mia per ri-trovare significati. Un gioco che spesso nutre la corteccia del dubbio. Nella scena finale del film la bocca di Alice è impastata di silenzio e assenza. Tutto è spento nelle cantine recondite dell’io ma quel che lei riesce a dire ancora con grande sforzo è l’ultima e unica parola possibile, AMORE. E può pronunciarla solo perché nonostante la malattia, è un sentimento che nella sua vita è sempre stata in grado di riconoscere, partendo da se stessa.
Non so se sono riuscita a trasmettere la mia idea di un pensiero che si fa vita e ritorno. Ma oggi vorrei restare semplicemente così, con le mie mani aperte ad aspettare la pioggia.

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